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Un diritto per cui ancora lottare

Di Federico Bennardo

, Vittoria Loffi

Il tema delle interruzioni volontarie di gravidanza affiora spesso nel dibattito pubblico a causa di un continuo “rimodellamento” legislativo – trasversale nel mondo – spesso e volentieri affrontato dalla politica in maniera ideologica.

Ne è un esempio la recente decisione presa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti di cancellare qualsiasi protezione costituzionale dell’aborto e la sua esistenza come diritto a livello federale, garantite da ormai 49 anni dalla storica sentenza Roe v. Wade. L’overruling operato dalla Corte (il ribaltamento di un proprio precedente) non trova una spiegazione solo nell’attuale assetto conservatore dell’organo – che vanta ben 3 giudici nominati da Donald Trump – ma è il risultato di una linea politica reazionaria che affonda le sue radici nell’era di Ronald Reagan e che ha portato, dagli anni Ottanta in poi, alla dichiarata volontà di nominare giudici della Corte Suprema apertamente pro-life e contrari a Roe v. Wade.

Saranno ora i singoli Stati a poter legiferare autonomamente sull’accesso all’aborto, un risultato da tempo auspicato dallo stesso autore principale della sentenza, il giudice Samuel Alito che già in un memorandum del 1985 consigliava all’amministrazione Reagan di presentare un amicus brief per sostenere le restrizioni all’aborto in Pennsylvania. Il memorandum, reso pubblico grazie ad una recente inchiesta del New York Times, discuteva di come ottenere il rovesciamento della sentenza Roe v. Wade senza attacchi frontali, ma lavorando Stato per Stato.

Secondo il Guttmacher Institute, NGO impegnata nel campo dei diritti sessuali e riproduttivi, saranno 22 gli Stati americani che complessivamente vieteranno l’aborto, ricandendo su oltre 30 milioni di donne in età riproduttiva. Con ovvie conseguenze sull’accesso alle procedure ed il ricorso a trattamenti clandestini, soprattutto per le classi meno abbienti che non potranno permettersi il costo relativo agli spostamenti verso stati in cui resterà legale.

È, infatti, facile per gli americani oggi dimenticare quanto, prima del 1973 – l’anno  della liberalizzazione dell’aborto da parte della Corte Suprema – l’illegalità fosse comune. Il divieto dell’aborto non impedì a perpetrazione di procedure illegali, condotte il più delle volte in condizioni insicure per la vita della donna. Un’indagine retrospettiva condotta da Willard Cates et al, pubblicata su JSTOR, ha messo in evidenza una riduzione di circa l’86% delle procedure illegali dal 72 al 74 e un decremento del tasso di morte dal 39 al 5% per gli stessi anni [1].

Oggi più che mai risulta evidente come la divisione tra realtà in cui è o non è giuridicamente possibile eseguire un’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è fin troppo semplicistica, non tenendo, infatti, conto della reale applicazione del diritto.

In Italia – dove tale diritto è regolamentato dalla legge 194/78 – una donna che decide di accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza ha, quasi sette possibilità su dieci (67%) di vedersi negato da un ginecologo/a tale accesso in virtù del diritto all’obiezione di coscienza individuale riconosciuto dall’art. 9 della legge 194/1978 che ha contestualmente sancito la non punibilità delle IVG.

Da ciò ne deriva che le donne interessate ad abortire e che risiedono in regioni con tassi elevatissimi di obiezione di coscienza saranno inevitabilmente costrette a peregrinare per il resto del Paese alla ricerca di ginecologi non obiettori disposti a completare l’IVG, facendo spesso i conti come, ad esempio, nel caso del Molise o della Basilicata, con infrastrutture carenti.

Non sancisce, però, la stessa legge 194/1978 che per garantire l’accesso ai servizi abortivi deve essere organizzata una adeguata mobilità regionale del personale medico non obiettore? E che quindi dovrebbero essere i medici a spostarsi, e non le donne? Questo è solo uno dei diversi e ormai più che evidenti cortocircuiti interni ad una legge che 44 anni fa poneva un vittorioso freno al fenomeno degli aborti clandestini, ma che oggi si dimostra apertamente insufficiente e lacunosa sul fronte dell’autodeterminazione delle donne. All’obiezione del personale ginecologico si è aggiunta quella degli anestesisti, infermieri, ostetrici e persino – pur essendo fuori da ogni limite legislativo – dei farmacisti per quanto concerne la contraccezione d’emergenza; addirittura intere strutture si rifiutano di erogare il servizio, in violazione di una legge che non sembra materialmente più esistere.

I problemi riguardano peraltro anche il lato medico. Essendo, infatti, i ginecologi non obiettori la maggioranza del totale, la decisione di performare IVG implica inevitabilmente – nel contesto di una branca specialistica così ampia, che va all’ostetricia alla chirurgia passando per la procreazione medicalmente assistita – una dedizione totale del personale a discapito di attività non meno importanti per la propria carriera professionale.

Secondo la comparativista Susanna Mancini il problema sta al cuore della legge 194/1978: una legge che, decriminalizzando l’aborto, non lo ha contestualmente trasformato in un diritto della donna e che ha mantenuto come perno il divieto di abortire. L’Italia, infatti, si inserisce in un contesto europeo dove le leggi sulle interruzioni di gravidanza sono costruite per ‘casistiche’ e ‘circostanze’ entro cui è permesso abortire.

Per questo vengono riconosciute come circostanze legittime per le quali ‘la prosecuzione della gravidanza comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica’ e non sembra, purtroppo, concepibile che una donna scelga, entro le prime 12 settimane di gestazione, di interrompere la gravidanza perché semplicemente ne è convinta per delle ragioni personali che non devono incastrarsi con casistiche predeterminate.

Fermo restando che, come ogni in atto medico, debbano essere spiegate alla donna le eventuali complicazioni[2]  a cui va incontro soprattutto in una reiterazione della procedura chirurgica, ed in ragione di una eventuale futura scelta di genitorialità, è forse la propria convinzione meno importante?

Secondo alcuni giuristi, sebbene la legge 194 non abbia fatto dell’aborto un diritto, è il suo riconoscimento in qualità di LEA (livello essenziale di assistenza) a permettere di parlare di “diritto all’aborto”, anche in Italia. Ma come possiamo parlare di diritto a fronte di inchieste come quella condotta dal settimanale “L’Espresso” nel 2020 che ha avuto il merito di denunciare pubblicamente le molteplici violenze psicofisiche vissute da donne che hanno cercato di abortire nel nostro Paese?

La politicizzazione estrema dell’aborto e la negazione di riconoscere interruzioni volontarie e terapeutiche di gravidanza come semplici pratiche mediche ha portato a conseguenze globali anche sul fronte dell’aborto clandestino – creduto ‘sconfitto’ dall’ondata di leggi sull’aborto degli anni ‘70. Secondo i più recenti dati UNFPA – il fondo delle Nazioni Unite per la popolazione il 45% degli aborti praticati a livello globale sono clandestini. Un dato che non stupisce, se consideriamo che solo durante l’anno, in Italia, per poter accedere ai servizi di IVG, 473 donne si sono ritrovate nella condizione – per poter accedere all’aborto farmacologico senza ostacoli di doversi rivolgere a Women on Web, un’organizzazione canadese senza scopo di lucro che aiuta le donne ad accedere in modo sicuro all’aborto quando le circostanze esterne non lo permettono.

 

[1] W. Cates, R. Rochat, “Illegal abortion in the United States: 1972-1974”, JSTOR, < https://www.jstor.org/stable/2133995?seq=1>

[2] Asherman Syndrome: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK448088/

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