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Perché l’Occidente ha fallito in Afghanistan? Dialogo con Mario Del Pero

Di Samuel Boscarello

Il ritorno dei talebani in Afghanistan travaglia la coscienza dell’Occidente, per la sua carica simbolica e per le immagini che rievocano potentemente il passato: le pubblicità femminili cancellate dai muri come memento dell’iconoclastia che accompagnò la prima esperienza taliban al governo, il cui apice fu la distruzione dei Buddha di Bamiyan. L’evacuazione aerea del personale diplomatico americano è stato poi fin troppo facilmente accostabile alla fuga da Saigon, ai tempi della guerra in Vietnam. E infine, nel marasma dei commenti, le immancabili immagini delle ragazze arabe, iraniane o asiatiche vestite all’occidentale, negli scatti in bianco e nero risalenti all’epoca della decolonizzazione. Tutto riconduce alla stessa domanda che suona come un refrain: cos’è andato storto? Se la democrazia occidentale ha realizzato le sue promesse di benessere e civiltà nel nostro spicchio di mondo, perché fa tanta fatica ad affermarsi in quelle regioni nelle quali ce ne sarebbe più bisogno? È il fardello dell’uomo bianco 4.0, potremmo osservare con distaccato spirito anti-eurocentrico. Può darsi. Ma ciò non offre una soluzione alternativa al dilemma dello sviluppo. Tuttavia, se il passato gioca un ruolo così centrale in questa vicenda, si può iniziare ponendo in prospettiva il fallimento occidentale in Afghanistan. Per questa ragione ci siamo rivolti al professor Mario Del Pero, docente di Storia Internazionale a Sciences Po Paris. Profondo conoscitore degli Usa, è stato autore di Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2016 (Laterza, 2017) e Era Obama. Dalla speranza del cambiamento all’elezione di Trump (Feltrinelli, 2017). Il primo, una ricca monografia sulla storia americana nei suoi rapporti con la dimensione internazionale. Il secondo, un’approfondita analisi degli otto anni della penultima presidenza democratica.

Professore, è vero che la Nato in Afghanistan ha investito troppo sulle infrastrutture militari, trascurando quelle civili e sociali?

Non mi sembra questo il caso. Sono stati attuati massicci programmi di sviluppo, promossi da agenzie governative e ong. Il problema sta a monte: l’idea di un intervento esterno capace di modernizzare e democratizzare un paese è un’illusione. Al massimo, le ingerenze possono concretizzarsi nel sostegno esterno alla creazione di infrastrutture. Storicamente, simili operazioni di State-building non hanno funzionato. Abbiamo una casistica molto estesa a disposizione. Nel 2005 Odd Arne Westad, in The Global Cold War, ha raccontato ad esempio delle conseguenze non volute dei programmi di sviluppo sovietici in Afghanistan. D’altra parte, negli Usa un pool di studiosi da anni lavora sui costi delle guerre americane nel XXI secolo: considerando anche le pensioni dei veterani e le cifre mediche, hanno elaborato una cifra che supera i due miliardi di dollari. Un investimento incredibile. Quindi il problema sono le premesse di questo impegno, spesso basate su meri assunti ideologici.

Dunque l’Afghanistan segna il capolinea della stagione degli interventi umanitari?

Distinguerei gli interventi umanitari dallo State-building. I primi vanno inclusi nella grande stagione dei diritti umani, che hanno occupato la scena politica internazionale a partire dal tornante tra anni Settanta e Ottanta. The Last Utopia, l’ha chiamata Samuel Moyn in un libro di qualche anno fa: i diritti civili e politici declinati in termini individuali e assoluti, per primo il diritto alla vita. Di conseguenza, se un governo è una minaccia per i diritti dei suoi cittadini, la comunità internazionale deve intervenire anche usando la forza e violando la sovranità di uno Stato.

Com’è accaduto ad esempio durante la guerra del Kosovo. Sul piano formale, l’attacco Nato alla Serbia è stato una vera e propria aggressione.

Non a caso nel 2005 l’Assemblea generale dell’Onu ha cercato di codificare questa fattispecie, introducendo la responsibility to protect, invocata peraltro per intervenire in Libia nel 2011. Dunque, la stagione dei diritti umani trova concretezza negli anni Novanta, specie a seguito del genocidio in Ruanda. Lì, il fallimento della comunità internazionale diventa il paradigma negativo: se fossimo intervenuti, avremmo salvato tutta quella gente. Samantha Power vince il Pulitzer con il suo A Problem From Hell, un libro di forte denuncia morale, ma anche piuttosto semplicione nel distinguere tra il bene e il male. Il modo in cui vengono giustificate le guerre in Afghanistan e Iraq, tra il 2001 e il 2003, è compreso ancora in quelle categorie. Tony Blair dichiara che nella guerra in Iraq sono in gioco tre parti: una militare, una politica e una umanitaria. Però il fallimento è eclatante. Si verificano mille cortocircuiti e doppi standard morali: uccidere per garantire il diritto alla vita, rispettare i diritti umani in alcuni casi e non in altri…

Come ad Abu Ghraib…

Ecco, in quel caso si imbocca la deriva della tortura. Inoltre la guerra, per essere sostenibile, deve minimizzare le vittime dalla mia parte. Per questo si conduce una guerra dall’alto, coi bombardamenti aerei, che però uccidono con più facilità anche gli innocenti. Ecco, credo che quell’era sia giunta al termine ancora prima dei recenti fatti in Afghanistan. Iraq e Libia le hanno dato il colpo di grazia. E poi c’è un’altra cosa.

Ossia?

I diritti umani hanno costituito la grammatica della globalizzazione contemporanea. Le hanno offerto un codice universalistico. Credo che la crisi dell’interventismo umanitario sia figlio della crisi di quel modello di globalizzazione cui abbiamo assistito dagli anni Settanta in poi.

In effetti, anche le tensioni all’interno dell’Alleanza atlantica sembrerebbero al loro massimo storico. Nei giorni scorsi, il commissario Ue Gentiloni ha invocato un sistema europeo di difesa autonomo dagli Usa. La Nato si sta definitivamente sfaldando?

Da storico, sono scettico. Il passato della Nato è costellato di crisi, spesso presentate come irreversibili e prodotte da elementi ricorrenti. Su tutti, lo scarto tra la capacità militare americana ed europea. Da qui, la legittima tendenza degli europei a criticare gli Usa per il loro unilateralismo. E d’altra parte, l’altrettanto legittimo fastidio degli americani per l’insufficiente contributo europeo all’Alleanza. Queste caratteristiche sono perfettamente riflesse nella vicenda afghana: gli Usa si sono fatti carico di più di due terzi delle vittime militari occidentali. Se consideriamo anche i contractors, si sale a circa l’80%. Idem per i costi materiali. D’altra parte, mi è capitato di parlare con dei comandanti italiani coinvolti in Afghanistan, i quali lamentavano la tendenza degli Usa di prendere decisioni senza informare gli alleati. Anche le modalità sul ritiro delle truppe sono state deliberate dagli americani in piena autonomia. Ecco, le crisi transatlantiche sono cicliche, sin dagli anni Cinquanta. Ne parla un volume che ho curato con Federico Romero nel 2007, proprio in conseguenza dell’Iraq (Le crisi transatlantiche. Continuità e trasformazioni, Edizioni di Storia e Letteratura, ndr). La Nato procede col pilota automatico. Durante i quattro anni di Trump, il presidente meno atlantista di sempre, non è cambiata una virgola nei programmi dell’Alleanza. Di certo, essa fatica a trovare una sua ragion d’essere. Ma faccio molta fatica a credere che possa implodere. Anzi, oggi l’amministrazione Usa è molto atlantista. Inoltre, da parte europea una soluzione del genere richiederebbe investimenti massicci sulla difesa, che sono impopolari e onerosi. Ci sono poi forti divergenze tra gli Stati. È la Francia a spingere di più sull’autonomia strategica europea, la quale le consentirebbe di avere una leadership che su altri dossier non possiede. Non a caso, quando Macron propone il tema, la Germania e molti altri Paesi si riavvicinano agli Usa. Paradossalmente, gli europei possono essere più autonomi dentro la Nato, innanzitutto offrendole un contributo maggiore.

Spostiamoci sulla politica interna americana: è vero che la crisi afghana ha minato il consenso di Biden?

Il calo dell’approvazione a Biden c’è stato, ma non va attribuito ad essa. Secondo le rilevazioni, la discesa dei consensi è anteriore all’offensiva talebana. Le ragioni sono altre. Una è fisiologica: gli Usa rimangono un Paese fortemente polarizzato, quindi i tassi di approvazione dei presidenti si collocano in un range molto stretto. Trump era impopolare, ma la disapprovazione nei suoi confronti non scendeva mai sotto una certa soglia. In questo contesto, il 55% di consenso da cui partiva Biden era un po’ troppo alto. Adesso è rientrato quel 5% di repubblicani che ne apprezzavano l’operato e, considerati anche gli indecisi, il presidente torna a galleggiare intorno al 45-50%. Inoltre ci sono due questioni politiche che lo stanno danneggiando. La prima è l’immigrazione al confine col Messico. L’amministrazione ha gestito male il massiccio flusso di migranti, incoraggiati anche dal fatto che la partenza di Trump dalla Casa Bianca potesse significare maggiore tolleranza. Questa vicenda è stata negli ultimi mesi il cavallo di battaglia dei repubblicani. Il secondo fattore è la pandemia. Biden ha promesso un’ampia campagna vaccinale, grazie alla quale tornare alla normalità. In realtà i dati della variante Delta sono impressionanti: siamo tornati a più di mille morti al giorno, contro i 200-250 di due mesi fa. Inoltre le vaccinazioni si sono arenate per le forti opposizioni politico-ideologiche. Gli Stati più conservatori hanno un basso tasso di vaccinazioni e un’altissima mortalità. Tuttavia Biden non ha realizzato la promessa di riportare la scienza al centro della lotta contro la pandemia. Sul ritiro dall’Afghanistan invece il consenso era elevatissimo, intorno al 70-75%. Un sostegno bipartisan, perché parliamo di un accordo negoziato da Trump. Questo fino a inizio agosto, quando cominciavano a giungere le prime notizie dell’offensiva contro l’esercito afghano. Biden però aveva bisogno che l’inevitabile successo talebano arrivasse qualche mese più tardi, quando la gente avrebbe già dimenticato l’Afghanistan. Ciò che sta accadendo adesso era esattamente quello che Biden avrebbe dovuto evitare: il caos, il mondo intero che legittimamente parla di un fallimento americano e addirittura i morti statunitensi. L’Afghanistan non ha determinato la crisi della popolarità di Biden, ma oggi lo colpisce molto forte. Anche perché sono anche tanti esponenti democratici a criticare il presidente.

A proposito, a metà agosto il Financial Times scriveva che l’Afghanistan è entrato nel mondo “post-americano”. L’influenza globale degli Usa è in declino?

Sul piano militare, gli Usa rimangono per distacco la superpotenza globale. Più o meno il 40% della spesa militare mondiale è statunitense. Hanno un massiccio vantaggio tecnologico, per quanto la Cina vi abbia investito in questi ultimi anni. Possiedono una capacità di proiezione della loro potenza che non ha pari: secondo varie stime, gli Usa hanno 700-800 basi militari in giro per il mondo, contro le 8-10 ciascuna di Russia e Cina. I prezzi delle materie prime sono denominati in dollari, i quali costituiscono anche il 60-70% delle riserve valutarie delle banche centrali nel pianeta. Inoltre, nell’ultimo ventennio gli Usa hanno quasi maturato l’autosufficienza energetica, tra petrolio, gas naturale e pesanti investimenti sulle rinnovabili. E poi gli Usa rimangono una potenza superiore anche nell’ambito del soft power e della proiezione della propria cultura. Ogni anno chiedo ai miei studenti di ricercare quali siano i film più popolari al botteghino in alcuni Paesi del mondo. Ora: prendiamo la Francia, un Paese che più di qualsiasi altro sussidia la cultura, al punto che i media francesi sono obbligati a destinare una percentuale al finanziamento della cinematografia nazionale. Ebbene, nel 2019, sui primi venti film al botteghino francese, diciannove erano produzioni americane. Se consideriamo tutti questi parametri, non c’è declino. Tant’è che i primi sondaggi hanno mostrato un Biden molto popolare fuori dagli Usa, capace di accendere quasi quanto Obama l’innamoramento globale per l’America. Detto ciò, la potenza è un fatto relazionale ed è molto legata all’efficienza dell’attore che la proietta. Anche gli Usa sono coinvolti in un groviglio di interdipendenze globali, che in un certa misura limita persino la loro sovranità. Lo abbiamo visto con la pandemia. Inoltre gli Usa hanno oggi un sistema politico assai disfunzionale, altamente polarizzato, in cui si governa a fatica e non si emanano leggi… voglio ricordare che il 6 gennaio scorso della gente con le corna in testa voleva impiccare il vice-presidente e bloccare la ratifica del voto popolare. Ciò origina cortocircuiti assurdi. Prendiamo la legislazione sull’aborto nello Stato di New York e nel Mississippi: sembra di essere in due galassie diverse. Questo è un elemento di fortissima fragilità per gli Usa.

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