Tra le infinite angosce che la crisi del Covid19 ha generato, a destare particolare terrore è che le varie legislazioni d’emergenza possano assestare un colpo mortale alle democrazie occidentali. Questa paura, tutt’altro che infondata, si fonda in primo luogo sul fatto che la schizofrenia normativa, per certi imposta dall’emergenza, possa intaccare gravemente le istituzioni democratiche. Inoltre, con la diffusione mondiale del virus, sorge spontaneo il paragone sull’efficacia della reazione tra Stati democratici e non, sollevando ragionevoli quanto temibili dubbi sulle capacità di risposta della democrazia riguardo le emergenze.
Questi tremuli interrogativi partono dal presupposto che l’oggetto stesso della questione, ovvero la democrazia, sia una realtà incontestabilmente attuale. Il vero problema è che la democrazia, non come dimensione percepita ma come dimensione reale, non esiste più. Essa si è smarrita negli orpelli della retorica apologetica, nelle distorsioni prodotte da commerci e consumi globali, nelle levate di scudi patriottardi e reazionari, in tutto ciò che l’ha trasformata nello strumento tattico di un potere sottomesso e autoreferenziale.
La democrazia sostanziale è un meccanismo di rappresentanza e governo dell’universalità che trova la propria ragion d’essere nella preminenza delle istanze sociali sul potere politico. La società, lontana dall’essere un qualcosa di autonomo e autosufficiente, trova un fondamentale complemento nel governo politico, deputato alla gestione dei movimenti sociali. In questo contesto lo Stato non si erge minacciosamente al di sopra della società, anzi, è un mero strumento d’ordine nelle mani del governo , utile per garantire la pacifica risoluzione degli antagonismi e al contempo la coesione sociale, l’eguaglianza materiale e il benessere della moltitudine.
Il problema all’interno di questa prospettiva è che le istanze della società non sono né omogenee né assolute, bensì relative alle condizioni materiali del soggetto empirico che le esprime: infatti ciò che viene creduto giusto o conveniente per qualcuno potrebbe essere per un altro ingiusto e controproducente. Una delle soluzioni a questo antagonismo è la governamentalità liberale, che creando dei particolari regimi di verità, quindi stabilendo un criterio utilitaristico[1] su ciò che è bene e ciò che è male, armonizza i diversi interessi in una comune prospettiva di diritto. Non solo, ma plasmando egli stesso i soggetti su cui deve governare[2], l’antagonismo tra questi risulta frutto della stessa matrice (regime di verità) che genera quel diritto[3]: in altre parole, si creano strumenti di risoluzione degli antagonismi e contemporaneamente i presupposti sociali affinché quegli strumenti siano riconosciuti come legittimi.
Il rapporto tra istanze sociali e governamentalità non è perfetto. Esso serba infatti il rischio per cui non si produca una forma politica universale, capace di ricomprendere pacificamente gli antagonismi nel suo diritto, bensì un regime di verità parziale. È in sostanza il pericolo di un regime ideologico, in cui le idee di una parte della società sono credute vere e applicabili per tutti gli individui, producendo forme di obbligazione che nei fatti sono vantaggiose solo per quella parte[4]. In questo caso lo Stato non risulta più finalizzato alla coesione della moltitudine, ma ad un’imposizione violenta e universalizzante che finisce per creare un individuo alienato dalla propria determinata essenza sociale.
Ciò è quanto accaduto con il neoliberalismo. Quest’ultimo, derivando dalle logiche dell’economia di mercato il dogma della naturalezza della società e della sua capacità di autogestirsi, si è imposto come centro del nuovo regime di verità governamentale. L’errore, innocente nei presupposti e malizioso negli intenti, risiede appunto nell’aver dato parvenza universale ad una logica societaria di parte (quella del capitale), e soprattutto di aver identificato leggi economiche credute vere (come la capacità del mercato di autoregolarsi) con la regolarità dei rapporti sociali. In altre parole, la società viene creduta naturale e autonoma perché quell’economia è creduta naturale e autonoma.
Ma se è vero che la società è un ordine autoregolantesi, come può una Thatcher affermare con così tanta tranquillità che la stessa società non esiste? Qual è il nesso tra l’autonomia e la pura inesistenza? Si tratta nient’altro che di una deduzione originata della sovrapposizione delle categorie economiche neoliberali, o meglio, di quella monade imprenditoriale e indifferente che è l’homo oeconomicus che finisce per accavallarsi a un’individualità empirica, che è sì economica nei bisogni ma storicamente sociale nei rapporti[5]. Quindi non solo la società smette (nella teoria) di esistere, ma paradossalmente subisce una trasformazione in senso mercatistico, dove il profitto regna sovrano e la politica, ormai completamente svincolata dal necessario complemento sociale, si prostra con sorridente bonomia al capitale.
Quindi, di quale democrazia temiamo la sorte se essa in realtà è già spirata? L’economia le ha tagliato la testa, la politica le ha amputato le mani. La società giace sconsolata ai piedi della sua croce, privata persino del diritto di esistere se non come fantasma di se stessa. Il Covid-19, però, instillando la consapevolezza del declino, può aiutarci a ricostituire quel nesso fondamentale tra politica e società, resuscitare quei diritti di libertà ed eguaglianza, altrimenti semplici fantocci nelle mani degli indifferenti. Può insomma ricostituire la sostanza di quella democrazia che ha sì smesso di esistere, ma forse non per sempre.
di Michelangelo Morelli
[1] L’utilitarismo rappresenta il passaggio da una concezione teologica della verità ad una basata su criteri di efficienza (o utilità), in cui l’azione di governo è finalizzata al buon funzionamento di entità mondane come lo Stato, la società o l’economia. [ndr]
[2] «Bisognerà parlare di “bio-politica” per designare quel che fa entrare la vita ed i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana» (Fonte: M. Foucault, Volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, 2013, p.199).
[3] Dire che la società è preminente rispetto al governo e contemporaneamente asserire che il governo produca i soggetti non è una contraddizione: si tratta infatti di una ri-produzione del soggetto e dei suoi interessi adattata alle circostanze e in vista di un fine, come ad esempio la ricchezza della nazione. [ndr]
[4] Ad esempio, relativamente al concetto di libertà su cui si fondano i regimi democratici e l’individualità moderna, Marx rileva che essa è in realtà la trasposizione ideologica di una libertà economica funzionale agli scambi: qui infatti gli individui non si fronteggiano come tali, ma come liberi possessori di merci, e quindi in un contesto in cui «ciascuno serve l’altro per servire se stesso; ciascuno si serve reciprocamente dell’altro come mezzo». (Fonte: K. Marx, Grundrisse, Vintage Books, 1973, p.243)
[5] «Considerare il soggetto in quanto homo oeconomicus non implica un’assimilazione antropologica di ogni suo comportamento al comportamento economico. […] Significa anche che l’individuo potrà essere sottoposto alla governamentalità, ovvero si potrà aver presa su di lui, solo e unicamente nella misura in cui egli è un homo oeconomicus». (Fonte: M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, 2004, p.207)