Diciamocelo: la pandemia globale è stata solo un grande catalizzatore, come ogni crisi che si rispetti. I problemi c’erano già ed erano tanti: c’era già un nutrito gruppo di questioni non risolte e discusse meno di quanto meritassero.
Nella commozione per coloro che abbiamo perso, nella gratitudine verso quelli che hanno portato sulle spalle il Paese -ognuno con i propri mezzi- è necessario fermarsi a riflettere, anche criticamente, e poi iniziare a ricostruire.
Se non altro per non perdere questa occasione di cambiamento, per non farla cadere nel nulla. Ma anche perché è prerogativa dei cittadini consapevoli custodire le proprie libertà fondamentali, soprattutto nell’emergenza: sono questi i momenti che si prestano maggiormente al caos quelli in cui i diritti possono venire compressi. In cui i problemi diventano talmente grandi da inficiare, a livello strutturale, quanto disposto dalla Costituzione.
Prima fra tutte le questioni c’è la disuguaglianza, problema endemico delle nostre società, che forse muove i suoi primi e più rilevanti passi in età scolare, quando diventa conoscibile (e conosciuta) dai diretti interessati. La percezione della disuguaglianza nasce lì, tra i banchi di scuola; ma è proprio la scuola che si occupa di limitarla e di insegnare, al contrario, che siamo tutti uguali e che i diritti di uno sono i diritti della pluralità. Abbiamo imparato, nel mezzo di questa pandemia, che la scuola è quanto di più democratico ci sia in un Paese democratico. Abbiamo imparato che la carta, le penne e i libri sono strumenti preziosi e soprattutto equi e che sono parte integrante del diritto allo studio. Abbiamo imparato che quando i bambini diventano ragazzi e rientrano nelle proprie case, lasciano quei principi in classe, perché le loro famiglie non sempre glieli possono garantire. Infine, è diventato subito chiaro che negli ultimi anni si è parlato poco, a livello istituzionale, di uguaglianza, equità, istruzione ed innovazione.
Con l’emergenza sanitaria il governo si è trovato a gestire una collisione imponente e complessa: quella tra diritto alla salute e diritto all’istruzione. Ma questa non vuole essere un’analisi sull’operato della Presidenza del Consiglio e tantomeno del Ministero dell’Istruzione, a cui va il plauso di aver immesso risorse e denaro -nello specifico 85 milioni di euro- nella disponibilità dei dirigenti scolastici del paese. Investimenti che sono arrivati con inconsueta rapidità sotto forma di devices, chiavette internet, strumentazione elettronica per la didattica a distanza, modalità di insegnamento che si è resa necessaria dopo la chiusura graduale delle scuole, tra febbraio e marzo, e che si è subito scontrata con la realtà: famiglie senza computer, interi territori senza banda larga. Dopo le prime settimane di anarchia, la didattica a distanza è stata regolamentata, pur nella confusione di alcuni temi (gli esami di maturità fra tutti).
Questa è piuttosto una riflessione sul mondo dell’istruzione ai tempi del coronavirus, per usare un’affermazione inflazionata, ma che si allarga inesorabilmente sul mondo dell’istruzione prima del coronavirus (e speriamo non dopo il coronavirus).
La didattica a distanza, lo dico da figlia di insegnante, ha fatto sorgere un alternarsi di esempi virtuosi, con docenti che si prodigavano per raggiungere i propri studenti in ogni modo e gli alunni più preparati che mostravano le proprie capacità. Ma abbiamo assistito anche a fenomeno diversi, come quello dell’abbandono scolastico agevolato dalle condizioni, in un Paese poco digitalizzato e poco innovativo. Un paese in cui, secondo l’Ocse, il 59% degli insegnanti ha più di cinquant’anni (i più anziani del mondo). Non è un problema di età, quanto di visione di un mestiere nobile che ha smesso di sembrare interessante, soprattutto agli occhi dei neolaureati.
La didattica a distanza è stata una risposta d’emergenza, che ha forzato la digitalizzazione dell’insegnamento, rendendo dunque evidente impreparazione e disuguaglianza.
È stata evidente infatti una impreparazione sulla strumentazione per gli alunni – nativi digitali- e sulle capacità di rinnovamento per i docenti.
Qui si apre la questione dei modelli formativi a tratti obsoleti che ancora prevalgono nelle nostre scuole, privilegiando una modalità frontale di fare docenza che risulta inadeguata in modo particolare oggi, con una didattica a distanza che, soprattutto per i più piccoli, pretende coinvolgimento, interattività, partecipazione. Richiamare uno studente distratto in classe è facile, anche se non risolutivo. La stessa efficacia non si può ottenere nelle classi virtuali, in cui a volte è sufficiente spegnere la telecamera per sparire dal raggio dell’apprendimento.
I dati Ocse sono stati richiamati proprio su questo tema anche da Anna Ascani in un dialogo con gli studenti della Scuola di Politiche durante ZOOMSdP. La vice-ministra dell’Istruzione ha sottolineato che l’Italia si trova agli ultimi posti a livello internazionale per quanto riguarda la formazione obbligatoria degli insegnanti.
Questo non significa che non abbiano competenze approfondite sulle materie di insegnamento e nemmeno che siano assenti le esperienze virtuose già citate in precedenza. Spesso però c’è una carenza nell’aggiornamento dei docenti, ad esempio sull’utilizzo della tecnologia a servizio della pedagogia e dell’apprendimento. Parafrasando Anna Ascani, l’insegnante sta diventando un maestro che forma i suoi studenti e contemporaneamente gli consegna strumenti per rielaborare le nozioni, infinite e rapidissime, che arrivano dall’esterno. Per farlo, questi strumenti deve conoscerli.
Quindi, in conclusione, è il momento di ripensare alla scuola.
È il momento di farla diventare più inclusiva e partecipata, in modo che riesca a dare a tutti gli stessi strumenti per muoversi sulle corde dell’interazione (e dell’integrazione), non lasciando indietro nessuno.
È necessario ripensare all’insegnamento, conciliando i contenuti di ieri ai nuovi metodi di apprendimento e lavorando sulla digitalizzazione.
Ma bisogna agire efficacemente e con rapidità anche sulla riapertura in sicurezza, perché lo spazio di uguaglianza che si crea nelle aule, in presenza, vicinanza, non può ovviamente essere sostituito. Dunque al centro ci deve essere l’edilizia scolastica, la divisione dei tempi e degli spazi e la ricostruzione di edifici che erano inadeguati già prima della pandemia.
Servono dunque maggiori risorse ed investimenti sull’istruzione, bacino della società di oggi e di domani, a volte amplificatrice di disuguaglianza ma anche -più spesso e per fortuna- di inossidabile uguaglianza.
di Veronica Antonelli