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La ricerca umanistica ai tempi del Covid e la necessità di tornare al pensiero lento

Il 9 marzo 2020 è stata, per la nostra generazione, una data epocale che ha segnato il momento in cui la crisi derivata dall’emergenza sanitaria Covid ha cambiato drasticamente le abitudini di tutti noi. Da un momento all’altro ci è stato chiesto di tirare il freno di emergenza alle nostre vite frenetiche, di smettere di viaggiare, di incontrare gli amici le nostre famiglie. È stato un passo difficile, fino a qualche tempo fa impensabile, che tuttavia abbiamo coraggiosamente compiuto con la consapevolezza che era in gioco la possibilità di salvare vite umane.

Con il passare del tempo – e con l’ansia sempre più pressante della crisi economica che rischiava e rischia di inghiottire il Paese – ecco che siamo giunti alla tanto evocata fase 2 e con essa alla riapertura di molte attività. È stata una riapertura dettata non dalla volontà di ristabilire la socialità umana, ma dalla necessità di tornare a consumare per dare una spinta alla già zoppicante economia. E così, tra aprile e maggio, con tempi diversi, sono state riaperte industrie, negozi, bar, ristoranti. Senz’altro attività necessarie, ma soprattutto in grado di produrre ricchezza.

E la cultura? No. La cultura non produce ricchezza, non incrementa il PIL, spesso è semplicemente una spesa. Così musei, teatri, cinema sono rimasti desolatamente vuoti, mentre le scuole e le università – apparentemente aperte e gagliardamente orgogliose del successo della teledidattica – sono in realtà rimaste chiuse, a porte ben sprangate. Gli studenti hanno salutato i compagni di classe a inizio marzo e non si sa ancora se potranno rivedersi tra i banchi a settembre. Nessuno (o quasi) si preoccupa degli effetti che questa crisi potrebbe avere su di loro: un significativo rallentamento dello sviluppo cognitivo e sociale per i più piccoli, la perdita di momenti salienti della vita per i ragazzi più grandi, per esempio i maturandi.

Sembra che l’emergenza abbia reso la cultura una questione ancora più insignificante del nostro Paese e che l’attenzione dello Stato per la scolarizzazione dei suoi giovani cittadini sia diventata inversamente proporzionale alla loro età. Più sono piccoli e più ci si preoccupa per la mancata frequentazione della scuola, ma quando crescono…Be’, tutto procede anche a distanza. In università, infatti, apparentemente il sistema funziona: le lezioni vengono puntualmente erogate tramite video caricati online e gli esami sono svolti regolarmente, tramite le più disparate piattaforme tra le quali gli studenti ormai hanno imparato a destreggiarsi egregiamente.

Lasciando da parte per un attimo la categoria degli studenti (che pure risentiranno di questo arresto della vera esperienza universitaria) all’università restano gli assegnisti di ricerca, i ricercatori, i professori o i semplici dottorandi, che magari, come nel mio caso, si occupano di qualcosa di vecchio, di datato o di superato: una nuova edizione di un’opera di Cicerone, per esempio, per di più minore. Questo sì che non produce ricchezza. Ed ecco allora che i dipartimenti e le biblioteche universitarie rimangono chiusi, anzi “aperti” secondo alcuni dal 4 maggio, ma con regole di accesso agli edifici e di gestione dei prestiti librari così arzigogolate che forse persino l’Azzeccagarbugli avrebbe faticato a trovare il bandolo della matassa, optando alla fine per rimanere a casa, come la maggior parte di noi e servirsi delle risorse online.

Le famigerate risorse online sono una chimera. Quante volte abbiamo sentito parlare di Digital Humanities senza sapere esattamente di cosa si trattasse e magari nella nostra immaginazione riducendole alla figura di un letterato intento a scannerizzare vecchi volumi polverosi? Ecco, in realtà proprio la digitalizzazione del materiale letterario avrebbe potuto consentire alla ricerca umanistica, che si nutre quotidianamente dei testi e della frequentazione delle biblioteche, di superare più felicemente un momento di crisi come questo.
Forse investendo le dovute risorse avremmo potuto evitare il completo arresto del sistema accademico, che certo non produce ricchezza materiale, non produce la ricchezza di un’industria, ma che sicuramente aumenta il valore umano e la competitività scientifica dell’Italia, sulla quale – ammettiamolo – c’è ancora molto da fare.

Per provare a superare questa fase cupa, allora, dobbiamo ripensare il nostro futuro, immaginandolo però in maniera diversa da come si stava profilando prima che il Covid travolgesse le nostre vite. Per farlo è necessario affidarsi a nuovi pensatori, che non sempre si trovano nelle mirabolanti agenzie di consulting pronte a sfornare pacchetti di slides con soluzioni confezionate ad hoc, ma persone ancora capaci di riflettere e di pensare, che non si vergognino all’idea di non avere una soluzione istantanea, ma che sappiano riconoscere il valore del pensiero lento.

In questa prospettiva di ponderatezza e di lentezza, quasi inaudita per un mondo che viaggia così velocemente, anche la ricerca umanistica potrebbe finalmente trovare il riconoscimento per un suo merito importante eppure svalutato: la capacità di allenare all’esercizio del pensiero critico. Un bene che forse è giunto il momento di riconoscere come ricchezza.

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