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Il narcisismo, malattia senile del progressismo? Dialogo con Giovanni Orsina

E se il peggior antagonista della politica fosse il narcisismo? Nel suo saggio La democrazia del narcisismo (Marsilio, III ed. 2018) il professor Giovanni Orsina ripercorre la storia dell’antipolitica operando nello specifico un’acuta distinzione, lato sensu antropologica, tra l’individuo liberale e l’individuo narcisista. Il primo persegue le proprie legittime aspirazioni personali, ma è educato ad inserirle entro un progetto sociale condiviso in cui ciascuno si auto-limita, cerca un continuo compromesso con il prossimo, poiché la cooperazione è la premessa per la realizzazione individuale. Il narcisista invece è sì un individuo liberale, ma sprovvisto di freni culturali: la società è il palcoscenico su cui egli proietta le sue aspirazioni, gli individui che lo circondano si riducono a spettatori del suo one man show. Così una società di narcisisti diventa simile a un brodo di atomi impazziti, che si aggregano e disaggregano senza nessun orizzonte comune a tenerli coesi.
Sarà per il fatto che è davvero difficile affrontare un simile argomento astraendosi dall’attualità politica, ma le fragilità croniche del centro-sinistra lasciano intravedere delle analogie sorprendenti con la parabola del narcisista. Se il problema di rigenerare il progressismo si è riproposto con tanta urgenza, è perché in fondo le fazioni che popolano questo mondo si comportano da anni allo stesso modo: correnti che si uniscono, si scindono, si riversano addosso le rispettive ricette per il successo politico senza giungere a una sintesi comune. Ne abbiamo parlato direttamente all’autore, già ospite della Scuola di Politiche alla Summer School di Cesenatico 2019.

Professore, il centro-sinistra è diventato narcisista?

La tesi mi sembra sostenibile. C’è un problema di percezione della realtà: il liberalismo regge perché presume che gli esseri umani possiedano tutti il diritto di avere le proprie preferenze, il proprio progetto di vita. Però sotto il liberalismo c’è un dato empirico che accomuna tutti gli individui. Possiamo discutere se sia preferibile avere un tavolo bianco o nero, ma dobbiamo essere tutti d’accordo sul fatto che quell’oggetto lì sia un tavolo. La libertà di discussione degli individui si appoggia insomma sull’idea che dietro il dibattito ci sia una verità alla quale possiamo avvicinarci, e che esista quindi un criterio per stabilire se una tesi o un’altra si avvicinino di più a quella verità. Ora, con la tarda modernità i criteri si sono dissolti, e le discussioni da libere si sono fatte caotiche. Non potendosi più partecipare al dibattito pubblico con l’obiettivo di avvicinarsi a una qualche verità, di crescere insieme ai proprio interlocutori, ci si partecipa per dare soddisfazione alle proprie emozioni. L’identità, anche quella politica, diventa quindi un rifugio di esseri umani sconcertati rispetto a un mondo privo di riferimenti, che non dà risposte. Questo vale per tutti, ma vale ancora più per la sinistra, sia perché a sinistra la spinta alla decostruzione dei valori è stata particolarmente forte, sia perché la politica conta di più per l’identità di sinistra che per quella di destra. Secondo Augusto Del Noce, nel marxismo ci sono due momenti. Uno è quello distruttivo, nel quale si teorizza che tutti i valori sono relativi ad una circostanza storica e dunque negoziabili. L’altro è quello ricostruttivo, cioè la rivoluzione e la società senza classi. Quest’ultimo entra in crisi insieme al marxismo, tra gli anni 1950-’60. La sinistra ha vinto la battaglia per la dissoluzione dei valori precedenti, ma ha perso quella per la ricostruzione… e si è rifugiata nel moralismo, nella convinzione della propria superiorità morale. E attorno a questa convinzione si è costruita un’identità.

Però, specie dopo la caduta del Muro, la sinistra ha sposato una forma di liberalismo, la Third Way di Clinton e Blair. Perché questo non ha risolto i problemi di cui parla?

Perché il liberalismo degli anni Novanta, di sinistra, ma anche di destra, è terribilmente antipolitico, ed è difficile costruire una posizione politica sull’antipolitica. In fondo quella è un’utopia che punta a un mondo senza più potere né comunità politiche, senza confini, in cui non c’è quasi più nulla tra gli individui liberi e l’umanità. Il governo del mondo viene affidato al diritto internazionale e al mercato, due strumenti non politici attraverso i quali gli individui avrebbero dovuto realizzarsi: il primo avrebbe garantito la loro libertà, il secondo la possibilità di rifornirsi di risorse materiali. I teorici della globalizzazione di quegli anni scrivevano che il politico sarebbe poi rinato in un’altra forma, ma non si capisce bene in quale. Già allora i critici, penso ad esempio a Chantal Mouffe (ma potremmo citarne altri di orientamento ben diverso, Samuel Huntington, Ralf Dahrendorf) , sostenevano che bisognava difendere la politica.

Il cosiddetto “populismo di sinistra”.

Sì, Mouffe, Ernesto Laclau… La Mouffe critica la depoliticizzazione, però sposa in pieno la decostruzione post-moderna dell’identità. E qui mi pare che risieda il principale elemento di debolezza del suo ragionamento: se la politica è espressione di identità collettive, come la pratichi in un mondo di identità decostruite? Marx non si rivolgeva genericamente ai poveri, ma alla classe operaia. E lo faceva entro un ragionamento molto strutturato. Se si fonda l’identità collettiva sul popolo che si ribella, non si riesce a dare vita ad un vero cambiamento politico. Al massimo, ai gilet jaunes.

Se la Third Way credeva nel mercato taumaturgo, negli ultimi anni a sinistra sta riprendendo fascino l’idea dello Stato forte, imprenditore e innovatore. Insomma, mi pare che non si riesca ad uscire da questa contrapposizione novecentesca tra statalismo e liberismo. Il rischio è che a farne le spese sia il terzo settore, la società civile organizzata.

Il problema è che da un lato la sinistra è cosmopolita, dall’altro crede che il mercato debba essere controllato politicamente. Negli ultimi decenni ha cercato di combinare queste sue due anime, la cosmopolita e la statalista, sforzandosi di portare i processi di governo del mercato a livello internazionale. Però questo passaggio è fallito. E qui si è aperto il conflitto: o la globalizzazione o il controllo dello Stato-nazione sul mercato. Sono le due sinistre, quella della ZTL e quella sovranista. Il terzo settore potrebbe essere un ottimo strumento di re-intermediazione, non solo per la sinistra ma anche per i liberali e la destra. Però non risolve il problema centrale, il rapporto con il potere. Il terzo settore ha una natura volontaristica, mentre il potere implica coercizione.

E se stessimo cercando lontano ciò che abbiamo sotto gli occhi? Il liberalismo sociale ha fornito una risposta a questo problema, ossia la democratizzazione del potere. John Stuart Mill sosteneva che l’associazione paritaria degli individui dovesse trovarsi non solo alla base della politica, ma anche dell’impresa economica e della vita familiare, e che la liberazione degli individui derivasse proprio da questo ordine democratico.

Assolutamente sì, ovviamente la risposta è questa: un potere ci deve essere, ma deve costituirsi in chiave liberaldemocratica. Il problema è che gli sviluppi degli ultimi decenni hanno squilibrato questo modello. La liberaldemocrazia è piena di contraddizioni interne. È uno straordinario esercizio di equilibrio fra valori tutti egualmente importanti e in contrasto l’uno con l’altro. Non si può avere il massimo della sicurezza e della libertà, ad esempio. La liberaldemocrazia intende essere un sistema ordinato, che genera progresso ma lascia liberi gli individui. Sono tre cose non necessariamente legate l’una all’altra. Anzi, apparentemente si contraddicono. Non puoi massimizzarle tutte. Però il nostro mondo va avanti per assolutizzazioni selettive: un giorno sembra che il global warming sia l’unico problema di cui occuparsi, il giorno dopo l’eguaglianza di genere, poi la sicurezza sanitaria. Ma la democrazia è esattamente il contrario! È la consapevolezza che tutti i valori vanno simultaneamente tutelati, pagando il prezzo di non poterne assolutizzare nessuno.

Allora mi sembra che l’unica soluzione a questa trappola sia di tipo educativo: formare gli individui alla coscienza democratica.

Sì, certo, ma qui si apre un altro problema: come educare in una società libera? L’educazione è un atto d’autorità, una proposta molto forte di un insieme di valori. La sinistra sta provando a ricostruire un progetto educativo: la tolleranza della diversità, il politicamente corretto. Però come fai a costruire un’identità sul fatto che ciascuno dev’essere libero di scegliersi la propria, quindi sul rifiuto dell’identità? In nome di cosa? Per questo la sinistra ha bisogno del nemico – Trump, ad esempio -, perché è un’identità in negativo. “Io sono non-quello”. Ma quando quello scompare, si trova in enorme difficoltà.

Spezzo una lancia a favore della sinistra riformista, che investe da anni un notevole capitale sull’europeismo. Mi sembra che perlomeno questa sia un’identità costruita in positivo. Anzi, le dirò di più: forse gli storici del prossimo secolo la interpreteranno persino come un nuovo nazionalismo.

L’europeismo è diventato il grande strumento per decostruire le identità nazionali. E in effetti, dapprima si è cercato di costruire l’Europa su una base non-identitaria, quella del patriottismo costituzionale, non legata a un’entità territoriale ma a un set di valori aperti e inclusivi. Però poi, quando si tratta di acquistare i vaccini anti-Covid, o difendi gli interessi degli europei o le scorte se le prendono gli Usa o il Regno Unito. Insomma, ci si è rifiutati di costruire l’Europa sulla base delle sue identità tradizionali – ricordiamo le polemiche sull’inserimento delle “radici cristiane” nel progetto di Costituzione europea. Però in una democrazia il problema dell’identità di un territorio va posto. Anche la destra ha i suoi problemi, certo: dagli anni Ottanta ha abbracciato il mercato e questo le ha distrutto i valori tradizionali. La sinistra dal canto suo ha decostruito le identità territoriali, che è esattamente lo stesso problema dell’Europa: come ricostruire un ordine politico? Per farlo però bisogna di nuovo saper ragionare in termini di identità, territorio e potere. Altrimenti non bisogna stupirsi di quanti vogliano ritornare allo Stato-nazione.

di Samuel Boscarello

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