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Il lockdown e l’arte dell’indugiare sulle cose. Bussole sociologiche per non smarrire le conquiste

Il pre-virus: tra iper-prestazioni e incertezza

Correre senza sosta, in affanno: questo il filo conduttore dell’epoca pre-virus di cui possiamo sottolineare tanto il benessere quanto i malefici. L’affanno è sempre lì, tra il benessere e i malefici, che sia l’affanno di cambiare, di scegliere, di crescere o di ricercare piacere. Che sia l’affanno del non sentire, di imparare, della ricerca d’approvazione o peggio di un’egotopia. Siamo stati abituati a una società che potremmo erroneamente chiamare dell’affanno; per noi, però, la definisce il filosofo coreano Byung-Chul Han: “società della prestazione”. Evoluzione dell’accogliente società salariale, che affonda le sue radici alla fine della Seconda guerra mondiale, quando gran parte degli individui cominciarono ad essere inseriti in sistemi di protezione sociale, costruiti solitamente a partire dal lavoro[1].

Nel tempo si è osservata l’erosione progressiva delle organizzazioni collettive, si è vista crescere la disomogeneità delle professioni, la disoccupazione e l’incertezza dei rapporti lavorativi, soprattutto per chi aveva già debolezze socialmente imposte. Robert Castel la definisce “la crisi della modernità organizzata”, quando ci si è promessi – per porla come una romanticheria – di poter applicare alla società tutta, “i principi dell’autonomia dell’individuo e dell’eguaglianza dei diritti”. Promessa mai mantenuta perché fondata su una concezione di società che considera gli individui liberi e uguali come meri interpreti di un rapporto contrattuale e questo – secondo l’analisi dello storico – esclude a priori un’intera porzione di società, come alcune categorie di lavoratori, “le cui condizioni di esistenza non possono assicurare loro l’indipendenza sociale necessaria per entrare alla pari in un ordine contrattuale”. Il risultato che tocchiamo con mano, a livello sociale, è l’avvilente crescita di un sentimento di insicurezza condivisa che stiamo sperimentando già da un po’. Insicurezza sociale che ha piantato salde e profonde radici, grazie ai più disparati complici, traghettando la società in un perpetuo stato di “frustrazione sicuritaria”. Un paradosso per cui, secondo Castel, viviamo nella società più sicura di sempre ma la domanda di sicurezza continua a crescere, in ogni antro.

Fino all’insorgere dell’emergenza sanitaria, la parola d’ordine è stata sempre chiedere sicurezza, in senso di protezione, perché sentiamo di meritarcela di diritto, fondamento del Contratto Sociale tacitamente sottoscritto da tutti, proprio come lo immaginava Rosseau. Nel mentre della crisi moderna, però, abbiamo anche raggiunto altri traguardi. A spasso con l’incessante domanda di sicurezza c’è stato un crescente affanno, competizione. Le regole del gioco si sono fatte sempre più stringenti e ci hanno dolcemente indirizzato con polso verso la “società della prestazione”. Una società che “ci spinge sempre ad essere imprenditori di noi stessi”, dove non si può dare più per scontato ciò che prima lo era, e la rivalità è altissima, sfrenata, tanto da confondere la frustrazione per normalità, puro prezzo da pagare per performare, trovare il proprio posto nel mondo, anche all’ombra, non c’è problema. Nella società della prestazione, che si accompagna, per Byun Chul Han, con l’avvento di un totalitarismo digitale in cui aderiamo volontariamente a un panottico benthamiano che valica i confini di 1984, e i peggiori episodi di Black Mirror, qui, nella società della prestazione “chi fallisce, invece di mettere in dubbio la società, il sistema, ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento. In ciò consiste la speciale intelligenza del regime neoliberale– sostiene il filosofo- Non lascia emergere alcuna resistenza al sistema. […] Nel regime dell’autosfruttamento l’aggressività si rivolge contro noi stessi. […] Oggi non lavoriamo più per i nostri bisogni, ma per il capitale. Il capitale sviluppa bisogni propri che per errore percepiamo come nostri. Una nuova forma di trascendenza, una nuova forma di soggettivizzazione”. Prima dello tsunami emergenza sanitaria, per riassumere, eravamo passati un po’ dal ‘tu devi’ della società salariale, al ‘tu godi’ di quella della prestazione, dove la ricerca incessante di non-bisogni ci impegna quelle poche ore libere dal lavoro. Come la definì anche Bauman:“la tirannia delle infinite possibilità”, che induce ansia da prestazione e arriva ad affiggere tanto il corpo sociale in sé, quanto la sfera psicologica dei singoli.

Il post-virus: indugiare sulle cose, una scuola per creativi e non

Il lockdown ha rotto la catena, interrotto la prestazione. Chiaro è che questo non può essere definito come uno stop positivo, però, è stato uno dei momenti più universalmente condivisi di sempre. C’è un dottore americano sui social, ad esempio, che accompagnato da un collega al piano canta ‘Imagine’ e scrive qualcosa del tipo: “Quando i tempi sono scuri come oggi, niente brilla più luminoso dello spirito umano. C’è qualcosa di positivo in questa lotta collettiva. ‘And the world will be as one’”. Il violinista Yo-Yo Ma con le sue #songsforcomfort e la cantante Lizzo con i mantra meditativi per trovare pace in casa, le storie della buonanotte lette ai tempi del Covid. C’è chi ha iniziato a scrivere un libro e chi ha riaperto Guerra e Pace promettendosi che stavolta ce l’avrebbe fatta. Ma c’è anche chi ha ripreso a disegnare, chi ha scoperto la grafica o la passione per l’arte del fumetto. È stata un’onda silenziosa, che si è mossa lentamente, con la forza rivoluzionaria e magnificente dello tsunami che si gonfia, ma senza la sua forza distruttrice. Artisti, fotografi, scrittori, comunicatori, disegnatori e cantanti, ognuno nel suo ha dovuto trovare una lente, all’interno di quattro mura, indugiando sulle cose. E così la tanto malvista noia, il tempo libero che neghiamo ai bambini riempiendoli di attività extrascolastiche “8 days a week” – per rimanere in tema Beatles – ha generato qualcosa di buono, che resterà: anche dopo l’emergenza. I quadri, le sculture, le canzoni, le strofe, i versi o le storie scritte saranno lì. Senza tempo. In dono per ricordarci che la ‘fear of missing out’, in fondo, è solo un’altra faccia della medaglia della società della prestazione. Dalla noia, troppo spessa accumunata al vuoto, al nulla, nasce oggi in realtà ciò che di più positivo ci resta, un patrimonio creativo e culturale che nasce solo grazie al lockdown. L’arte di indugiare sulle cose, di ascoltare i rumori di una città che cambia, quando il traffico si dissolve e si intravede solo qualche sagoma umana con guinzaglio o sui terrazzi condominiali. L’arte di indugiare sulle cose, dell’attività fisica come primaria necessità di purificazione dalla chiusura. L’arte di indugiare sulle cose, aprire le finestre, provare finalmente a stare con se stessi. Il presidente della Società italiana di psicologia a inizio marzo, prima della fatidica conferenza stampa del 9, rifletteva che nel caso di un distanziamento sociale imposto nel lungo periodo, saremo potuti entrare “nell’ambito della sana solitudine. Il deserto che cercavano i profeti è un risvolto per conoscerci meglio. Così, un po’ di deserto potrebbe permetterci di cercare e ritrovare la nostra reale identità, dando più attenzione alla spiritualità, in una società che, troppo spesso, è abituata a rivolgersi solo all’esterno”.

 

Si potrebbe dunque ricominciare da qui, dal livello sociale, empatico e prettamente individuale: a indugiare sulle cose. Trattenersi un attimo, godersi quel ritaglio di tempo più, con la giusta calma che questo deve meritare. Reimparare a respirare e guardarsi attorno, a far fluire la creatività quando questa si incanala. Si è parlato molto del fatto che “niente sarà mai più come prima”, si è parlato molto dell’aver compreso ciò che realmente vale. Siamo sicuri di aver compreso? “Nell’autosfruttamento l’aggressività si rivolge contro noi stessi”, ci ammoniva il filosofo coreano. E all’orizzonte è limpido il rischio di dimenticare in fretta quello che di positivo abbiamo appreso dalla pandemia. L’epoca dell’affanno “non ha tempo di approfondire la percezione. Eppure soltanto nella profondità dell’essere si apre uno spazio in cui tutte le cose si avvicinano e comunicano le une con le altre. È proprio questa ‘cordialità’, questa ‘affabilità’ dell’essere che consente al mondo di profumare”. Ecco perché non amo Twitter.

di Camilla Folena


Bibliografia e sitografia:

  • Han Byung-Chul, Duft der Zeit. Ein philosophischer Essay zur Kunst des Verweilens, trad. it., Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, Vita e Pensiero, 2017, Milano
  • Han Byung-Chul, Neoliberalismus und die neue Machttechniken, trad. it., Psicopolitica, Nottetempo, 2017, Roma
  • Castel Robert, L’insécurité sociale. Qu’est ce qu’être protégé?, trad. it., L’insicurezza sociale. Che cosa significa essere protetti?, Piccola biblioteca Einaudi, 2011, Torino

Il panottico di Jeremy Bentham, da MediaStudi

 

[1] R. Castel, L’insécurité sociale. Qu’est ce qu’être protégé?, trad. it., L’insicurezza sociale. Che cosa significa essere protetti?, Piccola biblioteca Einaudi, 2011, Torino

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