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Hi-tech, finanza, comunità: come sarà l’impresa sociale del futuro? Dialogo con Flaviano Zandonai

La decisione è stata resa pubblica a fine giugno: Cattolica Assicurazioni, storica cooperativa veronese con più di un secolo di attività e quasi 20 mila soci, si trasforma in società per azioni. Anche se la notizia non ha conquistato le prime pagine dei giornali, è degna di grande attenzione: parliamo di un gigante del settore, trattandosi della novantesima cooperativa al mondo per fatturato, che nella sua crescita ha abilmente coniugato mutualismo finanza tradizionale. Specie negli ultimi vent’anni: dal debutto a Piazza Affari all’ingresso di Warren Buffett nella compagine societaria, il contraltare di questa progressione è stato il forte radicamento territoriale dell’azienda (due soci su tre sono veneti). L’abbandono, almeno sul piano formale, del pilastro mutualistico è una svolta che induce a riflettere sullo stato di salute della cooperazione. Un movimento che negli ultimi anni ha affrontato da un lato difficoltà non indifferenti (il mai sopito tema delle false coop e vari abbandoni importanti), controbilanciate dall’emersione di nuove forme organizzative dalle ottime potenzialità: le cooperative di comunità, la concorrenza ai giganti della gig economy, la produzione diffusa di energie rinnovabili, la frontiera dell’industria 4.0. Quale bilancio possiamo trarne?
Lo abbiamo chiesto a Flaviano Zandonai, sociologo e open innovation manager presso il Gruppo Cooperativo CGM, rete nazionale che riunisce 701 imprese sociali e cooperative per fornire ad esse servizi aziendali e opportunità di sviluppo.

Cominciamo con la trasformazione di Cattolica. Come la valutiamo?

«Volendo fare il defensor fidei della cooperazione potrebbe anche essere un segnale d’allarme: questi modelli funzionano finché hanno una certa scala, l’espansione li manda in crisi. Cattolica aveva bisogno di molto capitale che la sua base sociale non poteva evidentemente fornire e quindi è dovuta ricorrere a un finanziatore esterno – Generali – che però probabilmente ha chiesto di cambiare modello di governance, passando dal modello “una testa, un voto” a uno in cui il potere è commisurato alla quota di capitale versato. Io non sono più di tanto sorpreso: in Italia oggi il settore assicurativo è uno di quelli in cui la cooperazione fa più fatica ad affermarsi, a differenza che in passato».

L’impressione è che le fragilità negli ultimi anni si siano concentrate nei settori più legati alla finanza, basti pensare agli scandali che hanno travolto svariate banche popolari. Corretto?

«Forse è cambiato il ruolo della finanza. Ci sono ancora le banche cooperative, ma anche quelle si stanno trasformando: anch’esse vengono obbligate a costituire gruppi nazionali molto gerarchici, oppure viene data ad esse la possibilità di trasformarsi in Spa… anche se pochissime l’hanno fatto».

E allora come può reagire il sistema cooperativo di fronte a questi cambiamenti?

«Io vedo due possibili soluzioni. La prima: interpretare in maniera cooperativa anche modelli non cooperativi. Anche una Spa può avere un azionariato diffuso. Certo, non è una cooperativa. Però consente una partecipazione allargata anche alle comunità territoriali. E poi si possono usare anche altre qualifiche, come le società benefit. Fare cooperazione senza usare sempre il modello cooperativo, insomma.
La seconda soluzione è integrare verticalmente alcune funzioni a sostegno del business. Significa ad esempio creare delle imprese – magari ad alta intensità di capitali e tecnologia – che fungano da società di servizio per gruppi di cooperative, ma siano al tempo stesso controllate da queste ultime. Insomma, si tratta di fare rete per gestire settori cruciali del business: immaginiamo ad esempio di aprire una società che si occupi appositamente di raccogliere denaro da reinvestire sul territorio. Però è importante saperle effettivamente governare e non far sì che queste società di servizio prendano la rotta che vogliono loro, come talvolta accade quando si prova a costituirle».

A proposito di raccogliere capitali: pensiamo a dei fondi pensione complementari gestiti dall’Inps che investano sull’imprenditoria sociale. Funzionerebbero?

«L’imprenditoria sociale ha rischi e rendimenti più bassi, quindi è adatta per gli investitori pazienti. I fondi pensione potrebbero essere un buono strumento, ma a patto che siano grandi e abbiano la possibilità di diversificare. Viceversa, investire solo su progetti di sviluppo locale mi convince meno».

Per tirare le fila del discorso, mi pare che tu stia tratteggiando un futuro in cui ci sarà più ibridazione tra imprese tradizionali e cooperative. Forse questo permetterebbe all’imprenditoria sociale di espandersi a settori in cui oggi è quasi assente, come l’aerospaziale o l’hi-tech.

«L’impresa sociale di oggi è a bassa intensità tecnologica e di capitali, che operano in settori dal valore aggiunto altrettanto esiguo. Gli investitori infatti fanno fatica, perché queste imprese hanno un profilo molto orientato alla gestione ordinaria piuttosto che allo sviluppo. Una leva finanziaria intelligente potrebbe spingerle verso l’innovazione tecnologica. Allora sì, potrebbe nascere una nuova generazione di imprese sociali. Vale anche per gli imprenditori del settore: ad oggi essi sono soprattutto operatori sociali, non vengono da contesti come i Politecnici. Finché la formazione dell’imprenditoria sociale resta confinata alle scienze umanistiche e ai servizi sociali, la vedo dura sul fronte della tecnologia. Però sembra che stia venendo fuori una nuova generazione di laureati che hanno voglia di usare le loro conoscenze scientifiche per scopi sociali, come d’altronde ci sono già dei casi di imprese del terzo settore che si stanno interessando all’innovazione. Avanzi ha lanciato insieme a Banca Etica un fondo equity destinato all’imprenditoria sociale e in futuro ne nasceranno sicuramente altri. Ne vedremo delle belle».

A questo punto mi collego a un’altra questione, quella della produttività. Essa pare tendenzialmente più alta nelle imprese tradizionali che nelle cooperative. È un’illusione ottica dovuta al fatto che queste ultime si concentrano perlopiù in settori che di per sé hanno una dinamica della produttività più lenta, come i servizi alla persona? Oppure è proprio un difetto strutturale della tipologia d’impresa?

«Per certi versi è comprensibile. Per esempio, occuparsi di lavorazioni molto semplici può essere un punto di forza per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, perché spesso queste hanno competenze scarse. Anche nei servizi sociali di base – assistenza domiciliare, infermieristica ecc. – non servono strutture particolarmente complesse, almeno fino a un certo punto. Però questo non può diventare la regola. Anzi, sta diventando sempre di più un problema, soprattutto perché stanno nascendo tecnologie sempre più inclusive e meno costose rispetto a qualche anno fa. Se ad un anziano acquisti uno smartwatch capace di registrare parametri relativi al suo stato di salute, stai potenziando il tuo servizio. Con la differenza che vent’anni fa tecnologie del genere non c’erano o costavano un sacco di soldi, oggi è il contrario. Nel caso delle politiche giovanili, spesso i ragazzini hanno competenze tecnologiche superiori a quelle degli operatori che li aiutano. La robotica sta lavorando su badanti e animali da compagnia artificiali. Secondo me è un problema se ad una cooperativa sociale non interessano tutte queste cose».

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