Che per funzionare al meglio una Pubblica Amministrazione debba essere gestita da persone capaci, può sembrare un’ovvietà. Ma che queste persone abbiano sempre e comunque tutte le competenze necessarie per affrontare i grandi cambiamenti del nostro tempo – non ultima l’emergenza sanitaria – non è altrettanto scontato. La pandemia ci ha insegnato che, di fronte all’imprevedibile, poter contare su una PA dinamica, resiliente e ben organizzata fa la differenza. Eppure, raramente si discute di come coltivare una classe dirigente che sia davvero in grado di fare della PA uno strumento di sostegno e propulsione delle risorse che il nostro Paese può esprimere, anziché l’oggetto costante delle lamentele collettive. Nel silenzio che circonda questo tema, la proposta che abbiamo elaborato – illustrata nelle prossime righe – è un primo, piccolo spunto di riflessione sulla formazione dei dirigenti pubblici, e sulla necessità di ristrutturarla, ripensandola in profondità. Senza formazione adeguata, il rischio è che i dirigenti pubblici si trovino a “condurre la propria nave tra le nebbie, armati solo di una vecchia bussola, ma senza radar: percepiscono i pericoli e le mancate opportunità, ma non sono capaci di individuarli con precisione” (Vincenzo Cosenza). Non ce lo possiamo permettere.
La proposta di policy affronta due aspetti: quello della formazione preliminare (destinata a studenti universitari) e quello della formazione continua (destinata a dirigenti incardinati nella PA). Riteniamo essenziale che chi amministra la “cosa pubblica” abbia una buona padronanza di competenze trasversali che vadano oltre la più ristretta conoscenza delle (necessarie) nozioni giuridiche. Se da un lato è certo necessario coltivare una solida formazione di base – relativa a tutto ciò che concerne il diritto pubblico, quello amministrativo, la finanza pubblica e via dicendo – dall’altro è necessario pensare ad una formazione che riconosca la necessità di aggiornare le competenze del dirigente, ed eviti di assecondare – di fronte a sfide sempre diverse e, spesso, sempre più complesse – l’immobilismo comodo e rassicurante del “si è sempre fatto così”. La società non è immobile: al contrario, procede a velocità e ritmi che la PA non riesce a seguire. Ma che ha il dovere di imparare a reggere – e, sempre di più, ad anticipare.
La formazione preliminare
Il luogo in cui la formazione preliminare dovrebbe trovare la sua collocazione naturale è l’Università. Si pensa quindi alla modifica strutturale o alla creazione nel caso non fosse già previsto, di un corso di Laurea Magistrale (codice LM-63) col preciso scopo di preparare i giovani laureati ad una carriera nella Pubblica Amministrazione e di dare visibilità a questo sbocco professionale, garantendo un’adeguata preparazione. A tale scopo, il corso dovrà offrire insegnamenti classici – come il diritto amministrativo e la finanza pubblica – ma al contempo completarli con approfondimenti volti allo sviluppo di capacità pratiche, relazionali e a carattere più marcatamente professionalizzante: il project management, la comprensione e la padronanza avanzata di lingue straniere, l’uso degli strumenti dell’e-government. Non da ultimo, attraverso un tirocinio della durata non inferiore a 3 mesi, all’interno di una PA comunale, regionale o nazionale.
Una simile LM dovrebbe: (i) essere aperta ai laureati provenienti da tutti i corsi di laurea, in modo da superare alla radice la dialettica tra profili specialisti e generalisti che da tempo priva il settore pubblico di saperi diversi da quelli di tipo giuridico e umanistico; (ii) porsi in continuità con la Scuola Nazionale per l’Amministrazione (SNA), fungendo non solo da percorso di preparazione al suo concorso, ma anche riconoscendo un vantaggio (attraverso un bonus di due punti) a chi decidesse di tentare l’esame di ammissione alla SNA.
La formazione continua
Alla luce della necessità di resilienza e attitudine al cambiamento che abbiamo descritto, la formazione continua avrebbe il compito di mettere in discussione la “staticità” professionale del dirigente, che – entrato a far parte di un sistema ampio e complesso quale la PA – deve coltivare un’attitudine positiva all’apprendimento, al confronto e alla collaborazione, nonché la capacità di dare un’immagine positiva di sé e della propria amministrazione. Anche in questo caso, è possibile identificare dei macro-settori in cui le competenze dei dirigenti dovrebbero essere maturate. Da un lato, restano importanti le competenze tecniche – quali l’aggiornamento tecnico di tipo giuridico-manageriale. Dall’altro, sono sottolineate le doti di problem solving e di capacità innovativa; ed emergono come centrali le competenze relazionali che favoriscono il dialogo, l’ascolto e la motivazione dei propri collaboratori. Infine, le “meta-competenze” di autoriflessione, adattamento e responsabilizzazione nei confronti del proprio ruolo.
Per realizzare tutto questo, è necessario prevedere una formazione continua di tipo modulabile e flessibile, strutturata come un vero e proprio percorso di crescita collettivo: uno strumento che “riesca a promuovere lo sviluppo di capacità strategiche in grado di anticipare i bisogni della collettività, pianificare gli obiettivi, governare le risorse e introdurre trasformazioni” (Santarsiero, 2003). Su questo lato, la nostra proposta di policy si articola in tre strumenti, ciascuno dei quali cerca di incentivare in modo diverso il dirigente pubblico a seguire con profitto le attività di formazione continua già in parte prevista all’interno della nostra PA.
Il primo strumento è la nostra “carota”: premi, bonus e scatti di carriera legati alla capacità del dirigente di investire nella sua formazione, attraverso la partecipazione attiva ai corsi erogati. Attualmente, il sistema di misurazione e valutazione delle performance del dirigente non prevede, tra i propri indicatori, alcun riferimento alla partecipazione ad attività formative: poiché riteniamo che la formazione continua sia un diritto del dirigente pubblico, questa deve essere incentivata ribaltando la regola attuale che premia i già meritevoli, costruendo un sistema di valutazione delle perfomance che premia i dirigenti in base alla loro capacità – tra le altre cose – di aggiornarsi e sviluppare le proprie competenze. Il secondo strumento è invece la definizione di regole chiare per l’accesso e la partecipazione del dirigente alla formazione continua. Se da un lato la mancanza di regole garantisce flessibilità – comprensibile, in quanto il dirigente pubblico deve in primo luogo ‘fare il proprio lavoro’ – dall’altro un eccesso di flessibilità rischia seriamente di precludere al dirigente ogni possibilità di crescita. Definire un numero minimo di regole permetterebbe di evitare questo scenario, salvaguardando la facoltà del dirigente di aggiornarsi e ‘fare meglio il proprio lavoro’.
Infine, il terzo strumento consiste nel ridisegnare la programmazione didattica in un modo che permetta la trasmissione di competenze tacite dai dirigenti pubblici più esperti a quelli più giovani, mettendo a frutto l’esperienza dei primi e stimolando al contempo le competenze e il senso di appartenenza dei secondi come parte di una vera e propria comunità di public servants, al servizio della cosa pubblica.
Conclusioni
La proposta di policy esprime la volontà emersa sia dall’osservazione della realtà, sia dagli interessi del nostro gruppo di lavoro, di rendere più efficace la normativa relativa alla formazione preliminare e continua della classe dirigente italiana.
La formazione è una vera e propria chiave di volta non solo per ottenere un maggior rendimento da parte del singolo dirigente e della specifica PA, ma anche per creare veri e propri spillovers all’interno del sistema amministrativo, volti a diffondere e promuovere lo spirito di corpo, la capacità di collaborare e la solidarietà intra- ed inter-generazionale tra public servants, promuovendo così i valori cardinali del pubblico impiego – primi tra tutti, quelli della trasparenza e dell’imparzialità.
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