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E se non bastasse ripartire dalle periferie? Dialogo con Paolo Venturi

di Samuel Boscarello

Nel 2019 ha fatto la sua comparsa nelle librerie un reportage chiamato Come si diventa leghisti (UTET), scritto dal giornalista del Foglio David Allegranti. Titolo volutamente iperbolico, giacché richiama la celebre opera di William S. Allen Come si diventa nazisti nella forma e nella sostanza. Come lo storico americano studiò il microcosmo di un piccolo centro della Germania nei primi anni Trenta, Allegranti si concentra su Pisa e i suoi quartieri popolari. Avvertenza: sforziamoci adesso a non concentrarci sul dito (l’equazione leghisti-nazisti), bensì sulla luna. O meglio sulla mucca in corridoio, per mutuare una fortunata espressione bersaniana, ossia il rapporto problematico dei progressisti con le periferie. Certo, il contesto politico in cui ha lavorato Allegranti è ben noto. Si tratta del parossistico tracollo registrato dal centro-sinistra alle elezioni politiche del 2018, in cui metà dell’Italia votante si è rivelata giallo-verde. La lingua batte dove il dente duole: nelle zone peri-urbane, appunto, nelle ex roccaforti operaie e comuniste passate negli ultimi anni alla destra (Sesto San Giovanni, Piombino).

Ma il problema viene da lontano, dalla trasformazione ancora in fieri del partito di massa novecentesco al partito-piattaforma dell’era digitale. Già negli anni Ottanta i militanti del Pci, educati al dogma togliattiano “una sezione per ogni campanile”, guardavano con preoccupazione all’avvento del “partito d’opinione”, caratterizzato da una struttura organizzativa leggera e membership più limitata. Insomma, presidiare il territorio è da decenni una preoccupazione crescente per i progressisti. Se oggi digitiamo su Google “partito della ZTL” otteniamo circa 10 mila risultati, in massima parte riferiti al centro-sinistra. Naturalmente questa narrazione possiede anche un controcanto, intonato come un riflesso pavloviano ogni qual volta si faccia notare che le roccaforti progressiste coincidono con i quartieri bene dei grandi centri urbani: ripartire dalle periferie. Ma cosa implica davvero? Lo abbiamo chiesto a Paolo Venturi, direttore dell’Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Nonprofit (AICCON) e profondo conoscitore dei processi d’innovazione sociale che animano le comunità nel nostro Paese, specie nei territori a rischio di marginalizzazione.

“Dobbiamo ripartire dalle periferie”. Perché l’impressione è che questo proposito non venga mai realizzato?

“Ripartiamo dalle periferie” è una narrazione in cui non mi ritrovo. È uno slogan di cui ormai tutta la politica si sta appropriando, specie in prossimità delle tornate elettorali. Il punto però è un altro: come costruiamo una diversa idea di città? La periferia è l’esito di un’idea di socialità povera di relazioni e significati: la città concepita come urbs. Proviamo invece a pensare la città come civitas, un luogo di intensi scambi non solo sul piano quantitativo, ma anche qualitativo. È un’idea inclusiva, nella quale la periferia può diventare anche un nuovo centro. Ad esempio, i miei amici della cooperativa di comunità di Cerreto Alpi dicono che il loro borgo è il centro del mondo. Ciò risponde ad un’idea di centralità che non è più solo un addensamento di economie ed interessi, ma innanzitutto di significati: il centro del mondo è dove desideri vivere. Dobbiamo capire che le periferie sono generate da un certo modo d’intendere l’economia e il welfare. Occorre andare al cuore delle distorsioni e non pensare solo a “riparare”. Non é un caso infatti che la rigenerazione,  cosa ben diversa dalla riqualificazione,  postuli economie di comunità e la partecipazione dei cittadini.

Sembra però che la pandemia stia rimescolando le carte in tavola: le grandi città si decongestionano, da un anno a questa parte si parla di South Working e molti piccoli centri cercano di diventare smart. È solo una tendenza momentanea o può diventare un vero e proprio cambio di paradigma?

Io ci credo, bisogna ridisegnare il territorio in maniera policontesturale. Questa crisi ha destrutturato il modello periferia-centro e ha aperto in potenza lo spazio per ridisegnare il territorio, soprattutto le aree peri-metropolitane. Ciò non significa che le città debbano trasferirsi nelle aree interne o viceversa, ma che le une hanno bisogno delle altre. Milano ad esempio sta mettendo a punto il near working, ossia funzioni della pubblica amministrazione che vengono decentralizzate in spazi di co-working. Nello stesso tempo, in Trentino il mondo della cooperazione sta realizzando un sondaggio che ha per oggetto le persone che si trovano a fare home-working nelle valli interne. In queste terre di mezzo esiste il capitale umano per costruire nuove infrastrutture sociali, che vadano al di là del semplice bisogno di avere una connessione ad internet veloce.

In che modo la politica può entrare in contatto con queste terre di mezzo? Io vedo un duplice rischio: da un lato cadere nelle ingenuità da “partito della ZTL”, che pretende di parlare alle periferie con il linguaggio di chi vive in centro. All’estremo opposto c’è l’approccio populista di considerare le periferie una massa indistinta da sussidiare per ottenere consenso, mettendo da parte i corpi intermedi e i propositi d’inclusione.

Purtroppo la politica spesso affronta la questione con un approccio paternalista e strumentale. Uno degli indicatori di questa visione è il “cortotermismo” delle soluzioni. La logica degli interventi è legata in parte alle scadenze elettorali, in parte all’idea del “rammendo urbano”: può andare bene se lo fanno gli architetti, come Renzo Piano, ma la politica deve andare oltre. La ricerca del consenso ha un’accezione negativa quando strumentalizza i bisogni delle persone e viene associata ad un vago appeal elettorale,  ma può essere declinata anche in una maniera positiva: condividere gli stessi significati. Basta consultazioni, servono conversazioni non strumentali. Per convincere occorre convivere. Il consenso puó essere rigenerato attraverso azioni non strumentali, di reale ascolto e partecipazione. In genere nelle periferie ci sono ben pochi corpi intermedi, se li intendiamo nella maniera tradizionale. Ma esiste ormai un insieme di nuovi intermediari che fanno advocacy su questi territori: centri sociali e culturali, Case di Quartiere, organizzazioni mutualistiche… soggetti che attivano veri e propri processi di partecipazione politica da parte degli abitanti. Nuove forme d’intermediazione che rilanciano il mutualismo come metodo e chiedono di essere incluse in processi di cambiamento.  Queste esperienze  si stanno diffondendo e diventano più solide lá dove trovano una  pubblica amministrazione capace di organizzare servizi e creare funzioni con compiti di “community building”. Senza un’azione di infrastrutturazione sociale, le politiche (anche quelle che dispongono di risorse ingenti) rischiano di fallire.

A proposito: da poco è uscito il bando straordinario per reclutare personale negli enti locali del Mezzogiorno affinché lavori ai progetti del PNRR. Mi viene in mente che una delle figure ricercate è quella dell’animatore territoriale. È questa la strada giusta?

Sì. Bisogna dotare la pubblica amministrazione di nuove funzioni sociali, soprattutto al Sud. Funzioni che stimolino la socievolezza e l’intraprendenza delle comunità. Dobbiamo ridisegnare i servizi includendo i beneficiari. Un lavoro enorme, servono energie e motivazioni, non solo competenze.

In questa discussione abbiamo molto criticato l’atteggiamento della politica. Tuttavia Giuliano Amato ha recentemente dichiarato che il terzo settore dovrebbe smetterla di lamentarsi della mediocrità dei politici e dire: “Ora tocca a noi”. I tempi sono maturi?

La politica è di per sé nell’orizzonte di chi opera nel terzo settore. E d’altra parte, la crescita del terzo settore fa bene alla politica. Spesso però quando si parla di politica si finisce per considerare solo la dimensione dei partiti, che è una grande distorsione. In tal senso, molte volte il terzo settore ha fornito risorse alla politica: penso ad esempio a Luigi Bobba, che è stato uno dei principali fautori della riforma del terzo settore. Piuttosto, il grande problema è far sì che il terzo settore venga riconosciuto come un pilastro capace di avere un impatto sulle politiche pubbliche e sulle scelte economiche. Esiste ancora una grande incapacità di valorizzare appieno le soluzioni che non vengono dallo Stato e dal mercato. Il “terzo pilastro” dilata il perimetro e l’inclusivitá del pubblico e rende più sostenibile l’economico. Serve piú coraggio.

Quindi il terzo settore dovrebbe proporre per primo un progetto complessivo di riforma sociale?

La riforma non basta più. Serve una trasformazione sociale, soprattutto dopo la pandemia. Pensiamo alle grandi sfide del futuro: salute, diseguaglianze, istruzione, rigenerare l’economia, salvare l’ambiente. Come stiamo già vedendo con il problema delle forniture di vaccini, sono tutti dilemmi cooperativi che non è possibile sciogliere individualmente. Ecco, per risolvere i dilemmi cooperativi non si può fare a meno del terzo settore e della cultura trasformativa che esso coltiva da sempre. Non ci si illuda di poter cambiare l’economia tramite le strutture d’incentivi. Piuttosto, bisogna favorire la biodiversità degli approcci imprenditoriali. In questo modo sarà possibile mobilitare risorse che spesso rimangono latenti. Bisogna anche dotare la pubblica amministrazione delle capacità per affrontare questi problemi: il continuo rincorrersi di gestioni commissariali e legislazioni d’emergenza è il sintomo di tale necessità. Questi obiettivi strategici meritano di essere al centro del PNRR, che avrà un impatto decennale sul nostro Paese.

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