Nel quotidiano bombardamento di articoli, scroll, approfondimenti televisivi e dirette su social, un mantra si staglia fra tutti gli altri: dopo il Coronavirus niente sarà più come prima.
Quest’affermazione pare univoca e inconfutabile sul fronte del lavoro, dello studio e dello svago, con l’universo dei bit che si approprierà sempre più di quello spazio che un tempo apparteneva al mondo degli atomi. Ma per quanto riguarda i cambiamenti sistemici, quelli che andranno a caratterizzare l’intera comunità internazionale, influenzando scelte economiche, politiche e culturali, la partita sembra invece tutta da giocare.
Slavoj Zizek ritiene che il virus stia facendo luce sulle insanabili contraddizioni del sistema capitalista, rendendole evidenti al grande pubblico e ponendo le basi per un nuovo modo di vedere e pensare il mondo. Da qui può nascere un’alternativa in chiave neocomunista, una risposta fondata su solidarietà a livello internazionale e comunità a livello locale.
Il filosofo sud coreano Byung-Chul Han è dell’opinione opposta: il virus porterà a un nuovo e pericoloso centralismo dello stato sovrano, con il capitalismo della sorveglianza dei giganti dell’High-Tech che gli faranno da vassallo. Grazie a un permanente stato d’eccezione, egli prevede l’affermazione globale di quella che in tanti paesi asiatici (primo fra tutti, la Cina) è già realtà: la definitiva vittoria della sicurezza sulla privacy con nuove e più stringenti forme di controllo sui cittadini.
Le ipotesi di Han e Zizek sono probabilmente i due opposti di un lungo continuum ben analizzato da Peter C. Baker in una long read sul Guardian dal titolo: “We can’t go back to normal. How will Coronavirus change the world?”
“Non possiamo tornare alla normalità”. È quello che più o meno consciamente condividono tutte le previsioni sul futuro: quanto stiamo vivendo oggi è di una gravità tale che il domani dovrà essere diverso: il peggior crollo delle borse globali dal 1929, miliardi di persone in quarantena, decine di migliaia di vittime, milioni di disoccupati. Come può tutto questo non avere effetti travolgenti?
Se guardiamo alla storia, grandi tragedie hanno portato enormi mutamenti. La stagione di peste iniziata nel 1347 ha decimato la popolazione europea, ma ha risolto il problema della scarsità alimentare e contribuito alla rifioritura culturale del Rinascimento nel ‘400. Con quasi 70 milioni di vittime e il 70 % della produzione industriale europea distrutta, la Seconda Guerra Mondiale è stata una delle più grandi catastrofi della storia dell’(in)umanità, ma da quel drammatico esempio sono nate le Nazioni Unite e la spinta ideale per la costruzione di un’unica Europa.
Queste tragedie sono state di una tale portata che, oggi, ci sembra impossibile anche solo immaginarle. Eventi traumatici che hanno trasformato il corso degli eventi e spesso in misura minore rispetto a quello che si immagina potrebbe fare oggi il Covid19. Alla prova del passato, infatti, l’attuale pandemia sembrerebbe non meritare neppure un breve paragrafo nei manuali di storia. Certo, non si può valutare la gravità di un fatto storico ancora in corso. Certo, Marx parafrasando Hegel era ironico quando ha scritto che “La storia si ripete sempre due volte, una volta come tragedia e una volta come farsa.” Certo, la storia insegna, ma non è l’eterno ritorno dell’uguale.
Eppure, questo paragone può essere un buon rimedio contro una malattia, non del corpo ma dell’intelletto: il presentismo, l’essere eccessivamente influenzati, fino al limite della distorsione, dallo stato di cose attuale.
In parte è una questione di “naturale” egocentrismo: credere di vivere in tempi unici e decisivi caratterizza da sempre la condizione umana e se un uomo di indubbia intelligenza come Hegel credeva che lo Stato prussiano a lui contemporaneo fosse la definitiva e più perfetta forma dello spirito del mondo, anche noi possiamo permetterci di peccare di un po’ di tracotanza.
Dall’altra parte, sappiamo bene di vivere in un grande mercato dell’attenzione globale. Pubblicità, informazione, rapporti sociali: ognuno cerca di avere un pezzetto di noi, sia esso denaro, un mi piace, un voto o una breve lettura. I grandi offerenti, per riuscire nel loro obiettivo, hanno iniziato un circolo vizioso in cui la nostra attenzione viene viziata da stimoli sempre maggiori. Ne sono esempi lampanti i titoli degli articoli da clickbaiting, ma anche l’estetizzazione dell’informazione: basta guardare la pacatezza con la quale è stata raccontata in Italia l’influenza spaziale del 1969-1970 rispetto al Covid19.
Questo gioco al rialzo dell’informazione ci fa pensare che le cose siano più grandi che in passato. Da una parte questo è positivo: le attuali 23.227 vittime italiane del Covid19 un tempo sarebbero state oggetto di ordinaria amministrazione mentre oggi sono giustamente considerate una tragedia, soprattutto grazie alla pervasività della comunicazione. Dall’altro lato, questo gioco al rialzo è pericoloso sia perché potrebbe portare ad un’inevitabile overdose d’informazione, sia perché ci fa perdere il senso dei fatti nella loro complessità e nella loro storicità, obbligandoci alla dittatura del presente.
Nessuno mette in discussione la tragicità dei fatti che stiamo vivendo, né la loro rilevanza. Ma proprio capire che forse stiamo sopravvalutando il presente può aiutarci a cambiarlo. Sembra paradossale eppure è così: credere che il virus sia destinato a modificare radicalmente il mondo può portare all’inazione da parte di chi vorrebbe cambiarlo. Tanto c’è il virus che sta cambiando la storia, perché dovrei farlo io? D’altra parte, parafrasando Antonio Gramsci, la fatalità della storia non è altro che l’indifferenza dei più.
Alcune cose cambieranno inevitabilmente. Il mutamento è nella natura della realtà e dei popoli, come diceva Machiavelli. Non si vuole negare l’impatto che la pandemia avrà sulla realtà, ma dobbiamo stare attenti a non considerarla la variabile decisiva, la causa da cui tutto il resto dipenderà.
È molto probabile che i binari su cui viaggia il treno del corso degli eventi non cambi abbastanza da essere annotato dai posteri. In uno strano gioco gattopardiano, la promessa di cambiare tutto rischia di fare rimanere tutto com’era nella “normalità”. E come ha brillantemente scritto Angel Luis Sura, tradotto da Pierluigi Sullo sul Manifesto, il problema era proprio la normalità. Quella “normalità” che si fonda sull’egoismo nazionale e sul dominio del mercato sopra la sicurezza sociale e l’ambiente. Non è un caso che i morbi sconosciuti stiano aumentando proporzionalmente all’industrializzazione dell’allevamento. Una delle cause principali dietro al diffondersi di virus che fanno l’ormai famigerato salto di specie dagli animali all’uomo (come il nuovo Coronavirus) sta proprio nella rottura dell’equilibrio degli eco-sistemi in cui queste mega-industrie vanno ad insediarsi. Come riportato dal New York Times, sono proprio i trattamenti crudeli verso gli animali e l’ambiente, dettati dal dominio del mercato, che hanno portato alla pandemia.
Il virus non era inevitabile, ma una precisa conseguenza di scelte economiche e politiche che hanno prodotto un’assuefacente normalità. Senza la consapevolezza di dover agire per cambiare questo status quo e guidati dalla fiducia nell’inesorabilità degli eventi, il Covid19 rischia di essere soltanto la prima delle tante e terribili crisi globali che l’umanità, completamente impreparata, si troverà ad affrontare nel XXI secolo.