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E se fosse un avvertimento? Pandemia e crisi climatica

La pandemia che stiamo vivendo non è certo il primo avvertimento, ma è sicuramente il più globale e mortale, finora, di una serie di eventi concatenati che andranno a crescere, come un climax, in intensità e frequenza, a meno che, ovviamente, non cambi il paradigma economico in cui viviamo; e, nel contempo, si facciano delle serie politiche di transizione. Eventi che saranno causati dalla crisi climatica, il cui climax, o culmine, secondo l’IPCC, si potrà avere tra il 2030 e il 2052.
Recentemente infatti, è stato stimato che l’attività umana abbia causato circa 1°C di riscaldamento globale sopra i livelli preindustriali, con un intervallo probabilistico di 0.8°C-1.2°C. Se l’aumento delle temperature continuasse a questo tasso di crescita, è probabile che si raggiungano gli 1.5°C tra il 2030 e il 2052 (IPCC, 2018).
È bene ricordare invece che, il 12 Dicembre 2015, 196 Nazioni hanno sottoscritto l’accordo di Parigi, acconsentendo a prendere delle misure per mantenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e di accrescere gli sforzi per limitare l’aumento a 1.5°C al di sopra di tali livelli (European Union, 2019).
Da qui il rischio reale di fallire la prova difficile rappresentataci dal Covid-19, ma anche la grande opportunità di aprire gli occhi, di imparare una lezione dura, di cambiare e di evitare di dare altre sigle e numeri a una catastrofe naturale o un virus futuro, che qui chiameremo “CLIMAx-30-52”, ma che vorremmo davvero non dover chiamare mai.

Cos’hanno in comune pandemia e crisi climatica?
Per far capire, anche ai più scettici, cosa hanno in comune queste due crisi, non c’è bisogno di andare a scomodare le recenti ricerche su come il particolato dato dall’inquinamento atmosferico acceleri la diffusione del virus, che necessitano di ulteriori conferme.
Parliamo di quello che è assodato, non da oggi, e soprattutto supportato dai dati. È chiaro infatti come il riscaldamento globale faciliti la moltiplicazione di pandemie tropicali. Distruggendo interi ecosistemi (i.e. deforestazione) si liberano più facilmente virus aerobici dai loro ospiti naturali, che devono trovare nuovi ospiti, spesso noi. Il cosiddetto salto di specie o “spillover”. Per non parlare del legame tra zoonosi e degrado ambientale: Kate Jones dell’University College di Londra, tra gli altri (i.e. OMS e FAO), già nel 2008 aveva identificato 335 malattie infettive emergenti a livello globale nel periodo 1940-2004. Il 60% di queste è originato dalla fauna selvatica (Zamagni, 2020). Se non bastasse, è ormai chiaro come il virus attecchisca meglio in aree del mondo caratterizzate da particolari fattori climatici – temperatura e umidità giocano un ruolo importante – e in aree con un alta densità di popolazione e inquinamento atmosferico. Basti pensare a Wuhan in Cina o alla pianura Padana in Italia.

Ecco allora cosa hanno in comune: pandemia e crisi climatica ci stanno danneggiando entrambe, sono scatenate dallo sfruttamento umano degli ecosistemi, il virus attecchisce di più nelle zone ad alta densità e inquinamento atmosferico, e infine, in entrambi i casi la scienza ci dice cosa fare e che politiche adottare.
La differenza? Nel caso della pandemia, la scienza viene ascoltata, in quello della crisi climatica no. Il motivo? Gli effetti della pandemia sono a breve termine, quelli della crisi climatica a medio-lungo termine, o così pare a chi non vuole vedere. L’attuale politica, si sa, ragiona a brevissimo termine.

Abbiamo davvero imparato qualcosa?
Una storia fatta di immagini ci può fornire una prima interpretazione di cosa, forse, abbiamo imparato. Delle foto satellitari innanzitutto. Si è visto come l’inquinamento sia diminuito, in Cina come anche in Italia in misura minore, per effetto del lockdown. Non era poi così male quando ci affacciavamo dal balcone e respiravamo un’aria diversa vero? Anche gli abitanti del Punjab avranno notato la differenza, quando, per la prima volta dopo 30 anni, vedevano l’Himalaya dalle loro finestre. Poi ci sono le foto fatte da tutti noi, e postate sui social, di animali selvatici nelle città, di delfini nei porti, di uccelli sui nostri tetti, di strade deserte prima, e poi popolate solo da pedoni e biciclette. La natura si è ripresa quello che era suo.

Tutti ci siamo emozionati, ma siamo sicuri che tra qualche mese non tornerà tutto come prima? O peggio, spingeremo ancora di più sull’acceleratore (quello sbagliato)? D’altronde, c’è bisogno di ripartire.

Il rischio di tornare a quella insostenibile normalità è alto. Basti pensare a cosa alcuni gruppi (sovranisti) stanno facendo all’interno delle stesse istituzioni europee per tornare indietro anche rispetto al green deal europeo e trasferirne i fondi verso l’emergenza sanitaria. Viste le similitudini tra le crisi, questo errore non va fatto.

Cosa fare allora?
Il Green Deal europeo intanto va protetto, aumentato nel budget, e implementato.
In Italia tre elementi interessanti da cui partire, dopo il timido Decreto Clima del 14/10/19 n. 111, si trovano invece nel nuovo DL Rilancio: vi troviamo infatti le misure per incentivare la mobilità sostenibile, 120 milioni per il c.d. bonus bici, altri 40 milioni invece per creare sviluppo sostenibile nei parchi nazionali, c.d. Zea (zone economiche ambientali), e infine l’ecobonus con un credito di imposta al 110%.  Nonostante manchino le indicazioni e i fondi promessi ai comuni per le ciclabili di emergenza – hai voluto la bici? Pedala. Si, ma dove?  – e non si possa assolutamente parlare di svolta ambientale, come si è detto, bisogna ammettere che ci sono delle basi su cui lavorare questa volta. Uno sforzo si è fatto. Serve però pensare anche a delle decisioni più sistematiche e a lungo termine.

Consigli di un umile cittadino (non richiesti) per un futuro apparentemente lontano:
Il primo passo verso una società a emissioni nette zero è il taglio dei sussidi ai combustibili fossili, circa 19 miliardi in Italia (Legambiente, 2017). Senza andare nei dettagli, per usare un eufemismo, potrebbero essere usati meglio.

Il secondo punto riguarda il cosiddetto “carbon pricing”, in questo caso tassare le emissioni. Infatti, se esiste in Europa un sistema di prezzo e mercato del carbonio – EU-ETS – implementato nel 2005, non esiste invece una carbon tax europea, in cui gli stati manterrebbero il controllo sulle revenues, che in Italia potrebbero essere utilizzate distribuendo dividendi direttamente alle fasce più colpite o incentivando opzioni a “basso reddito” come il trasporto pubblico.

Un terzo passo dovrebbe prevedere un profondo cambio nel modo di produrre energia. Questo si traduce nel passaggio da una produzione centralizzata a un decentramento della produzione di energia, distribuita capillarmente su tutto il territorio, puntando sull’energia solare. Sarebbe bello un futuro caratterizzato da pannelli solari sui tetti delle famiglie italiane.

Infine, l’invito che ci fa Stefano Boeri è quello di ripensare le città, parzialmente autosufficienti dal punto di vista energetico ed alimentare, riscoprendo i borghi e il verde. Si può combattere la deforestazione, quindi la distruzione di ecosistemi, e lo scoppio di altre pandemie, anche riforestando le nostre città.

Perché no?

Non so voi, ma io, intanto, la bici l’ho comprata. Ora si pedala.

Non potremo dire, la prossima volta, di non essere stati avvertiti.  

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