Le democrazie sono in difficoltà. Ce lo ripetono da anni analisti, politologi e anche il senso comune. Freedom House – centro di ricerca statunitense specializzato su questo tema – da anni attesta l’arretramento dei regimi democratici e l’ascesa di forme più o meno evidenti di autoritarismo. Alcuni di questi problemi sono sotto gli occhi di tutti. La crisi delle identità collettive, l’ambiguo ruolo del digitale, l’emergere di forze politiche antisistema e da ultima la pandemia: sono tutte questioni a cui si è cercato di rispondere adottando misure di “ingegneria politica”, dalla proclamazione dello stato di emergenza a nuove formule istituzionali, come una legge elettorale maggioritaria o un più forte ruolo del Presidente della Repubblica, di cui si parla in questi giorni. Senza voler entrare nel merito di queste misure, bisogna altresì constatare che in questi anni è mancato – a livello di dibattito pubblico e di politiche messe in campo – una riflessione più profonda sui mali all’origine dell’“inverno dello scontento” che le democrazie stanno vivendo.
È a questa mancanza che cerca di rimediare nel suo piccolo il seminario organizzato dall’Arel dal titolo “La democrazia rappresentativa e la società digitale”. L’incontro, introdotto da Enrico Letta e moderato da Marianna Madia, ex ministra della Pubblica amministrazione e particolarmente sensibile ai temi della democrazia digitale, ha visto come relatrice Lea Ypi, professoressa di teoria politica alla London School of Economics.
Ypi comincia da una riflessione sul tema della polarizzazione, spesso associata agli strumenti digitali e accusata di essere uno dei mali principali delle nostre democrazie, come ben raccontano da opere che hanno avuto un grande impatto sull’opinione pubblica come “The social dilemma”. Nel documentario prodotto da Netflix, le filter bubble e la targhettizzazione delle inserzioni (politiche e commerciali) vengono presentate come gli elementi determinanti nello sgretolamento del tessuto democratico, andando a fomentare una polarizzazione che si traduce in incomunicabilità, mancanza di fiducia reciproca ed estremismo, fino a sfociare nella violenza. La vera questione però, secondo Ypi, non sta tanto nella polarizzazione in sé e per sé, ma piuttosto in come essa viene gestita, governata e istituzionalizzata. Certamente, negli ultimi anni abbiamo assistito ha una distorsione della polarizzazione politica, se ancora negli Stati Uniti metà degli elettori repubblicani ritengono che il presidente legittimo sia Donald Trump. Ma ciò non ci deve far pensare che il problema stia nella diversità delle posizioni. È necessario superare l’idea a metà tra l’aristotelismo e la tecnocrazia che in democrazia ci sia “un giusto mezzo”, una vertà tecnica oggettiva che sta più o meno al centro dell’agone politico, a cui i partiti devono conformarsi “emancipandosi” dalle proprie ideologie. Si tratta di un concetto che l’attuale Ministro degli Esteri Luigi di Maio, quando era leader del Movimento 5 Stelle, espresse bene con la formula “non esistono soluzioni di destra e di sinistra, esistono solo soluzioni”.
Una delle ragioni profonde della crisi della democrazia rappresentativa, oggi, sta proprio nell’egemonia culturale che questa idea è riuscita a raggiungere. Una democrazia si basa sulla pluralità, che Hannah Arendt erigeva a condizione prima della vita politica. Pluralità che comporta la legittimazione dell’avversario e la relativizzazione della verità politica. Negare l’esistenza di soluzioni di destra o di sinistra, conservatrici o progressiste, popolari o elitarie, finché rientrano nell’arco costituzionale, significa negare la pluralità che fonda la vita politica delle democrazie. Questo sfasamento tra le premesse teoriche della vita democratica e l’attitudine dei cittadini alla vita politica crea un cortocircuito sociale per cui la democrazia appare come un sistema antiquato, inefficace o semplicemente sbagliato. Il tutto si traduce in un grado sempre più alto di sfiducia e delegittimazione, a cominciare dagli attori che più di tutti (inevitabilmente) la compongono: i partiti politici. Un dato su tutti appare estremamente significativo: secondo il rapporto Demos Pi “Gli italiani e lo stato” del 2020, i partiti in Italia sono l’istituzione più sfiduciata di tutte, con appena il 9 % degli italiani che dichiara un giudizio positivo nei loro confronti.
Nonostante questi dati, la natura plurale e polarizzante delle democrazie richiede necessariamente la presenza di istituzioni come i partiti che sappiano indirizzare e regolare le diversità di posizioni e idee. Lo spiega bene Roberto Esposito nel suo ultimo libro, dove parla delle istituzioni come “ciò che garantisce al conflitto politico di continuare a svolgere il proprio ruolo attivo e regolativo all’interno della società”. L’istituzione, e quindi anche il partito, non può ridursi ad essere novello Mr. Wolf, un tecnocratico risolutore di problemi, ma deve dare forma alla polarizzazione per far progredire dialetticamente la società, coerentemente con quell’idea di “repubblica tumultuaria” che già esprimeva Machiavelli parlando della repubblica romana. Il problema delle democrazie non è quindi la polarizzazione in sé e per sé, ma l’incapacità di gestire il conflitto e l’inutile tentativo di cancellarlo, creando in questo modo tensioni e contraddizioni irrisolvibili.
La riflessione sulla democrazia rappresentativa non può quindi che concentrarsi sul ruolo dei partiti. Negli ultimi decenni quest’ultimi, inebriati da una narrazione de-conflittualizzata della politica, hanno finito per appiattirsi sulla dimensione amministrativa, configurandosi come macchine elettorali finalizzate esclusivamente all’elezione dei propri dirigenti, e perdendo così la relazione con un tessuto sociale fatto di associazioni, rappresentanze e masse senza diritti. Un partito che si riduce ad essere la maschera di filiere per la gestione del potere non può che vedere sprofondare, alla prova del tempo, il proprio consenso ed essere sfiduciato dalla popolazione. Per questo motivo bisogna riscoprire la dimensione del partito come comunità di valori in relazione con le parti sociali, in modo da essere in grado di produrre quella legittimità necessaria per portare avanti proposte politiche radicali.
Sulla radicalità della politica Ypi dedica un’attenzione particolare nel suo discorso. Secondo la professoressa, si tratta di una conditio sine qua non affinché i partiti progressisti possano tornare a contare. Una volta capito che la mediazione e la moderazione non sono valori assoluti, i partiti non devono più temere la polarizzazione, ma contribuire a costruire una polarizzazione migliore, che passi dall’onestà intellettuale alla chiarezza delle posizioni, fino alla pulizia di un sistema mediatico forse ancora più in crisi di quello politico. La radicalità non è soltanto sinonimo di politiche forti, decise, che all’annacquamento preferiscono la coerenza, seppur con il rischio di fallire al primo tentativo. Radicalità va anche intesa nel senso etimologico di andare alla radice dei problemi, facendo delle politiche non demagogici strumenti acchiappa-voti sottomessi ai dettami della sondocrazia, ma il risultato finale di una elaborazione politica che soltanto un partito-istituzione può avere la capacità di portare avanti in termini di risorse e competenze.
Posizioni politiche forti servono anche a fare chiarezza in un’infosfera mediatica sempre più caotica per i cittadini, soprattutto per i non “addetti ai lavori”, che necessitano di parole chiare e nette per orientarsi. Adottando politiche radicali si può per tanto recuperare la dimensione trasformativa della politica, producendo quel cambiamento tanto promesso quanto disatteso dalle classi dirigenti degli ultimi decenni, e che forse più di qualsiasi altro aspetto ha comportato la sensazione che la politica fosse qualcosa di “inutile”, allontanandola dalle persone e facendone un ambito di discussione e decisione sempre più elitario.
Se le questioni politiche più impellenti, dalla gestione della pandemia alle migrazioni, dalle disuguaglianze economiche alla spada di Damocle del climate change, sono squisitamente transnazionali, i partiti politici devono sempre più assumere una dimensione internazionale. Non tanto per adeguarsi alla realtà dei tempi, ma al contrario per essere in grado di anticipare e indirizzare il corso stesso degli eventi. Grazie alle famiglie politiche europee, l’Europa sta andando gradualmente verso questa direzione, ma la politica rimane ancora per lo più ristretta nei recinti degli stati-nazione e il sistema di policy making dell’UE non è ancora sufficientemente democratico per consentire un reale empowering dei cittadini. La transnazionalità della politica si riallaccia anche a un altro punto sollevato da Ypi, ovvero quello della cittadinanza. La professoressa critica la concezione di cittadinanza di natura prettamente etnografica che vige in Europa. È necessario ripensare la cittadinanza in termini più ampi ed espansivi, coinvolgendo realmente le persone interessate dalle decisioni politiche nei processi decisionali, persone che spesso non equivalgono a chi per jus sanguinis può definirsi italiano, francese o europeo.
Le domande che sorgono dalla riflessione di Ypi sono tante e tutte, probabilmente, necessariamente senza risposta. Come strutturare i partiti affinché siano davvero comunità di principi e non semplici macchine elettorali? Esiste ancora la disponibilità a livello di persone, risorse, competenze e capitale sociale per svolgere questa funzione? O siamo destinati a passare da un comitato elettorale all’altro? E poi, come gestire le contraddizioni che emergono dalla necessità di tenere insieme la funzione sociale e valoriale del partito con quella istituzionale e di rappresentanza? Come costruire una democrazia transnazionale? Può bastare la radicalità delle proposte e un rinnovato impegno nella costruzione di alleanze con comunità e rappresentanze per invertire la tendenza di una politica ridotta a marketing, dove il partito è un bene che si acquista con il proprio voto e non una comunità in cui ci si rispecchia e a cui si decide di contribuire?
Parafrasando Bauman, il problema della nostra epoca non è tanto trovare le risposte, ma porre le domande giuste. Per questo la riflessione di Ypi è tanto precisa quanto preziosa, soprattutto quando la frenesia del calendario politico e gli imminenti impegni istituzionali tendono a non tenere in considerazione i movimenti profondi e sotterranei che muovono la nostra vita sociale, spesso invisibili alla luce accecante delle risposte categoriche ma che si riescono a intravedere con la luce calda e un poco soffusa delle domande.